Il rap italiano vive un momento d'oro e, insieme al tanto celebrato Ghali, c'è un altro talento che merita di far parlare di sé ed è Izi. Labirintico, intricato, cervellotico come i vicoli della Genova in cui è cresciuto, e come il capoluogo ligure altrettanto sorprendente e schietto. Così è Diego Germini, che come streetname ha scelto Izi, palindromo efficacissimo che suona come easy, parola a lui particolarmente cara perché gli ricorda di mollare, ogni tanto, l'ansia che lo morde alle caviglia, per stare, invece, un po' tranquillo. Di tranquillo, però, nella vita di questo rapper (ma anche attore protagonista del film sul rap italiano Zeta) 21enne c'è sempre stato ben poco: dalla separazione dei genitori, con conseguente tour di tribunali, assistenti sociali, psicologi, alla fuga da casa per andare a lavorare in una fattoria, fino ai problemi con il diabete, precipitati addirittura in un coma, sono state giusto una manciata le volte in cui ha potuto tirare il fiato. Nemmeno oggi, che il suo secondo album in studio Pizzicato (Thaurus/Sony) sta andando alla grande, con tanto di primo posto diretto nella classifica FIMI, Izi riesce a rilassarsi, perché, come racconta in una pausa lampo dalle prove del tour estivo (info: www.thaurus.it), «del successo mi fa paura tutto: ci vorrà ancora del tempo per farmi stare comodo, in questo tipo di vita così esposto».

Si sente anche in Pizzicato, questa irrequietezza: c'è dentro più rabbia o più speranza?

Entrambe le cose. Anche perché il primissimo brano che ho scritto in vita parlava proprio di speranza, anzi si intitolava Tieni viva la speranza. Avevo 15 anni ed esortavo me stesso a tenere duro, pensa te. I versi rabbiosi di oggi, invece, nascono dal vedere come questa società sia attaccata a cose stupide, come la fissa per l'apparire continuamente oppure il bisogno di copiare sempre qualcuno, di essere uguale a quello o quell'altro… Ecco, credo che in parte il mio sia un disco di denuncia di queste miserie e al contempo un tentativo di scuotere soprattutto i più giovani tra i miei fan, che ascoltano noi rapper e cantanti più dei professori, e dirgli: «Puoi fare meglio di così, puoi essere libero, puoi essere te stesso».

Che ruolo ha e ha avuto il dolore nella sua musica?

La mia musica, così come io stesso, è il risultato della somme di cose che mi sono accadute. Senza di quelle forse non avrei iniziato a scrivere, a partire dalle poesie che sono state il mio primo amore artistico e mi hanno aiutato moltissimo a tirare fuori la sofferenza, elaborandola e trasformandola in altro. Per me oggi la lezione è non rimanere invischiato nel passato, ma imparare da quello per costruire il mio futuro. Io ho scelto di mettere a disposizione di chi mi ascolta la mia vita, il mio passato, la mia esperienza, con sincerità e onestà, poi ognuno ne farà quello che vuole.

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Nel disco c'è un pezzo con Fabri Fibra intitolato Dopo Esco: in che cosa vi siete scoperti simili?

Prima di tutto nella smodata passione per la musica, che per entrambi è qualcosa di viscerale e urgente. Poi siamo abbastanza simili per il taglio un po' esoterico e spirituale, anche se non a tutti decifrabile al primo ascolto, dei nostri testi. In Dopo Esco parliamo apparentemente solo di erba, sostanza con cui ho chiuso del tutto così come con tutte le altre dipendenze sigarette comprese, ma in realtà il messaggio ultimo è: Dio, fammi assaggiare un po' di saggezza, un po' di purezza. È anche questo un discorso di elevazione. Allo stesso tempo fai in modo che io possa portare questo messaggio agli altri ragazzi, fai in modo che i miei sbagli possano essere da esempio per loro, perché, in fondo, il primo a non cogliere la differenza tra uso e abuso ero proprio io.