«Quando Questo piccolo grande amore è arrivata al primo posto in classifica io non ho capito cosa stesse succedendo. Però mi sono preso i tre tram che mi portavano da via Tiburtina, dov'era la mia casa discografica Rca, al Prenestino, e dai tram lungo il tragitto guardavo le finestre dei palazzi e pensavo: forse dietro quella finestra c'è qualcuno che mi conosce, e io non so niente di loro, delle loro vite. Mi metteva una stranezza dentro, come nei romanzi rosa: le farfalle nello stomaco». 

Sono passati 42 anni da quel 1972, Claudio Baglioni si è abituato al pubblico che lo conosce (dice che i concerti «sono come andare dallo psicanalista, e invece di pagare vengo pagato»), e in questo tour è evidente la vittoria sul lungo periodo di La vita è adesso (1985), dal quale fa sei brani su dieci: d'altra parte noi quarantenni nostalgiche abbiamo deciso che è l'album delle nostre vite, essendo uscito quando eravamo alle medie. 

Quando mi dice che il disco dei miei 13 anni lo ascoltarono in macchina, in cassetta, dopo averlo finito, e «Va bene che le cassette si sentivano male, ma pensai: come ho fatto a fare un disco così brutto, pieno di parole, senza un ritornello», quasi mi alzo e me ne vado, offesa a nome di tutte le vitaèadessiste che all'epoca portavano l'apparecchio ai denti. 

«I primi cinque, sei anni non venivamo riconosciuti: la tv faceva pochissima musica. Io mi ricordo che fino a Sabato pomeriggio (1975, ndr), e anche dopo, io giravo per strada tranquillamente. Poi ho girato benissimo, per un anno e mezzo, quando mi sono tagliato i capelli. Andai a Sanremo a prendere il premio per la canzone del secolo (per Questo piccolo grande amore, nel 1985, ndr) e mi scappò la pipì. Ero in prima fila, sono uscito, e non mi facevano rientrare: "Guardi che ho la diretta", e quelli dell'organizzazione "Sì, come no". Non mi riconoscevano, abituati a vedermi con un sacco di roba in testa». 

Al concerto di Torino ci sono due momenti di particolare esaltazione del pubblico (me compresa). Uno è su "Chi ci sarà dopo di te respirerà il tuo odore pensando che sia il mio", verso di Mille giorni di te e di me che parla di ogni fine di ogni storia di ogni amore. L'altro è per l'esecuzione di Io me ne andrei. Baglioni, quando gli faccio notare cosa scalda la platea, sintetizza tutte le paturnie mie e delle altre migliaia che squarciagolavano: «Lasciarsi è molto più epico che accompagnarsi». 

«A L'ultimo valzer con Art Garfunkel facemmo The sound of silence. M'ha fatto un mazzo così, io ero il direttore artistico, mi trattò come una pezza da piedi, arrivò in sala prove e cacciò tutti e mi fece rifare tutta la pronuncia sillaba per sillaba. Un rompiscatole micidiale: durante le prove tutti i monitor girati, perché se si vede ripreso gli prende una crisi isterica. E non era gonfio come lo vedi di solito, era un po' più moscio: poi m'ha spiegato che lui s'infila tra i capelli una cannuccia per gonfiarli con l'aria compressa». 

L'ultimo valzer (1999) chiude il periodo che nella nostra conversazione Baglioni riassume così: «In dieci anni ho fatto quattro trasmissioni tv: quelli della casa discografica mi prendevano e mi buttavano lì dentro». 

Quello che non dice è che ci sta ricascando: in queste settimane sta organizzando una prima serata che andrà in onda su RaiUno a gennaio, un suo concerto in diretta da Bologna che dovrebbe essere un evento e una celebrazione, coi suoi colleghi che vanno a cantare i suoi pezzi. 

Si spera non stravolgendo troppo gli arrangiamenti, come ti viene voglia di fare quando sei costretto a indossare quello che lui chiama «il vestito stretto di allora»: il grande successo di decenni prima che il pubblico pretende, senza rispetto per il tuo esserne annoiato. 

«A un certo punto Questo piccolo grande amore non solo la stravolgevo, ma chiedevo alla platea di non cantarla. E il più grave affronto che tu possa fare al pubblico protagonista di oggi è chiedergli di tacere. Oramai si fanno i concerti per un convegno di cineoperatori. La tv ci ha condizionato talmente tanto che, anche se assisti a un evento live, è meglio se te lo rivedi in differita. C'è la ripresa di quasi tutto, poi la constatazione di com'è venuta la ripresa, il post, e poi il selfie: si girano e si riprendono col palco sullo sfondo. Però uno che viene a vederti dal vivo, oggi, con Internet e tutto a disposizione a casa, comunque è un eroe: bisognerebbe pomiciare con ognuno di loro».


La maglietta fina sarà sempre il marchio baglioniano per i distratti, per quelli che giurano di non sapere chi sia Claudio Baglioni (mentono: tutti quelli che non lo citerebbero mai tra i pilastri della cultura popolare italiana sanno a memoria almeno una dozzina di sue canzoni; non sanno di saperle, ma se ne metti su una poi partono i cori, è un riflesso indomabile). 
Lui giura di non esserne più snervato, «Alla fine ci fai pace. Non ho più paura di essere quello della maglietta fina: è la pace dei consensi», e liquida il periodo in cui in concerto si rifiutava di cantarla con la sintesi «Quando ero cretino». Se i suoi rapporti con quella canzone lì si sono rasserenati, però, è anche perché le sentimentali l'hanno abbandonata per Mille giorni di te e di me. 

«Mille giorni di te e di me è entrata due dischi dopo, in Oltre, ma era pronta nell'85. Però non era come la senti ora, si è raffinata, forse non c'era neanche quell'incipit, "io mi nascosi in te, e poi ti ho nascosto da tutto e tutti per non farti più trovare", e la fine della prima parte, "una storia va a puttane, sapessi andarci io". E poi qualcuno disse "però La vita è adesso è forte", e in effetti era un pezzo molto intenso, dal punto di vista ritmico. L'ultimo giorno togliemmo Mille giorni e finimmo in una notte e mezza La vita è adesso, in uno studio preso all'ultimo momento, coi tarli… Quasi sempre i dischi si finiscono in maniera disperata. Avrai l'ho fatta in una pausa di Paul McCartney, registrava tutti i giorni tranne il mercoledì: mi infilai nello studio mentre lui giocava a Space invaders».