“Ti telefono o no, ti telefono o no, io non cedo per prima ” (Fotoromanza, Gianna Nannini)

L’amore si nutre di permanenza, ed è per questo che – quando ancora avevo un efficace sistema di drenaggio perioculare – cominciavo a piangere subito dopo le pagelle. Il premio per i miei lodevoli risultati scolastici era la deportazione: al mare, dai nonni. Passavo i giorni infiniti di giugno sognando, languendo, e circumnavigando la cabina del telefono con una scheda da 10000 lire nello slip. Mica lo sanno, le ragazzine, di che fatica fosse innamorarsi prima del cellulare. Dell’aritmetica che bisognava governare per dividere il tempo in scatti interurbani, e poi riempire ogni scatto di parole inutili e significativi imbarazzi, prima del bip. Della dignità da fachiro che serviva quando il bagnino strillava «La signorina Serena è desiderata al telefono. È ancora quel Paolo» e io risalivo gli ombrelloni con disinvolta misura invece di saltellare «Mi ama! Mi ama!» fino al bar. Dello sguardo obliquo che era necessario dissimulare per controllare ogni minuto sull’orologio della spiaggia, il primo giorno che Paolo non chiamava. E il disperato coraggio che richiedeva, il terzo giorno, entrare nella cabina a cento gradi e arrendersi: «Buongiornosignorasonoserenapotreiparlareconpa-» – ah, no. «Grazie, arrivederci». Odio l’estate. Clic.

Ombrelloni mare estatepinterest
Edoardo Busti / Unsplash.com

“This is the rhythm of the night, the night, oh yeah” (The rhythm of the night, Corona)

A vent’anni si è egemoni davvero: persino la dance era italiana, ma si dava arie di mondo. E noi: uguale. Il mio primo tedesco venne equanimemente spartito con l’amica mia Giovanna: lei i giorni pari, io quelli dispari. Siccome erano meno, avevo anche diritto di prelazione sui sandali in comune. La vita era più facile: si potevano mangiare anche le fragole, e l’estate era un viaggio lungo due mesi di cui si programmava solo la partenza. Certe notti la macchina è calda, e dove ti porta lo decide lei. Certe notti non era manco una macchina: era un motorino in due, senza casco e senza testa, a sfidare la sorte e le zanzare (siamo state molto fortunate, ma anche molto punte: nessuno bacia una che puzza di Autan). Quando i locali chiudevano smarmittavamo a squarciagola fino al baretto del porto – losche individue al bancone del bar, piene di whiskey e margarida – per prendere i cornetti e toglierci le scarpe. A nessun maschio era consentito accompagnarci a casa. Prima di andare a letto mettevamo la sveglia, e amezzogiorno ci trascinavamo in spiaggia per collassare al sole spalmate di Peroni e crema Nivea: siamo sopravvissute per miracolo. (E no, non ve lo dico cos’ho fatto con il greco sulla ).

“Ed ero contentissimo in ritardo sotto casa e io che ti aspettavo, stringimi
la mano e poi partiamo” (Amsterdam, Tiziano Ferro)

La radice di tormentone è tormento: non avete mai sofferto d’amore finché non avete sofferto d’amore e d’estate. (E di Sere nere, naturalmente, ché siccome sono megalomane ho sempre pensato fosse scritta per me: non c’è tempo, non c’è spazio, mai nessuno capirà). Non so se siete mai state lasciate la sera prima di partire: io sì. E no, non ho accettato l’invito ad andare comunque, tanto ormai avevo pagato. Quindi ho passato l’estate a squagliarmi di crepacuore sul divano convinta davvero che «Se tu non torni, non tornerà nemmeno il sole, e resteremo qui, io e mio fratello a guardare la terra», o più probabilmente i film del pomeriggio di Canale 5. Non che avessi un fratello: bastava il barattolino Sammontana. Non so se siete mai uscite un venerdì di ferragosto col sole a spaccacuore per cercare un tabaccaio aperto: io sì. Metà del tempo l’ho passata a interrogarmi sulla «netta differenza tra il più cieco amore e la più stupida pazienza», l’altra metà a decidere di smettere almeno di fumare, non sapendo rinunciare ai mascalzoni senza rimborso. Ho stretto amicizie formidabili, quell’estate in città: baristi, spacciatori, puttane e giornalai, poliziotti e travestiti, gente in cerca di guai. L’unico peccato fu creder speciale una storia normale, come al solito. Però ad Amsterdam non ci sono più tornata.

Coppia amore estatepinterest
Christiana Rivers / Unsplash.com

“Col trattore in tangenziale, andiamo a comandare” (Andiamo a comandare, Fabio Rovazzi)

A un certo punto ho smesso di decidere che musica ascoltare. Me ne sono accorta un’estate che poltrivo al lago e su Twitter correggevo a un padre somaro la citazione dell’acqua minerale (si sboccia: non si spaccia). In fondo i tormentoni nessuno li ha mai scelti. Non è certo per esplicita delibera che ogni volta che scendiamo in spiaggia qualcuno si mette a cantare Vamos a la playa (oh oh oh oh oh). Che ad Alghero si va in compagnia di uno straniero. Che se hai comprato anche la moto, è usata ma tenuta bene. Che sotto questo sole è bello pedalare, sì, ma c’è da sudare. Che allora io quasi quasi prendo il treno e vengo, vengo da te. Che accoccolati si sta ad ascoltare il mare: molto tempo, senza fiatare. Sotto il cielo di un’estate italiana. (Qui dovrei aggiungere la canzone di Fedez e J-Ax, temo, ma a casa mia non è ancora dilagata). Prima c’erano i jukebox, poi le autoradio, ora l’Up Next di YouTube o altra prepotente diavoleria. Più che di temperatura, il cambio di stagione è questione di rima baciata. Si riconosce l’estate che avanza quando basta una vespa per sentirsi in vacanza. Oppure tre parole: sole, cuore, amore. Io vado al mare, voi che fate?