Poteva essere mio figlio: un pensiero che ha sfiorato molti e molte nell'estate del 2015, davanti a un video di qualche anno prima tornato all'improvviso d'attualità, nel quale un bel ragazzo moro ballava la breakdance con evidente felicità, indifferente alla povertà che aveva intorno. Il bel ragazzo si chiamava Seifeddine detto Seif o anche Sésco e nell'estate del 2015, ancora iscritto a un master e in regola con gli esami, ha ammazzato 39 turisti sulla spiaggia di Sousse, Tunisia.

Guardando Seif diciannovenne fare le acrobazie, e poi Seif ventitreenne col kalashnikov sulla spiaggia di Sousse, in altre e più traballanti riprese girate nei minuti dopo la strage, ha preso forma la domanda centrale di Non aspettarmi vivo (Einaudi), il perturbante reportage di Anna Migotto e Stefania Miretti sulle tracce dei ventenni tunisini risucchiati dalla guerra santa nel bel mezzo di esistenze pochissimo devote, spesso apparentemente normali: com'è potuto succedere?

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Non aspettarmi vivo, Einaudi, pp. 250, 17,50 euro, ebook 9,99 euro.

«In quei video abbiamo percepito prima di tutto il dramma di un ragazzo», dice Stefania Miretti, già inviata della Stampa e firma ben conosciuta dalle lettrici del nostro giornale, che insieme ad Anna Migotto, inviata di Mediaset, ha battuto la Tunisia per quasi tre anni, ricostruendo le biografie dei giovani jihadisti. Un dramma non isolato, perché i foreign fighters tunisini nell'esercito del califfo non sono poche mele marce, ma un numero stimato vicino a diecimila.

«È un'intera civiltà in cortocircuito. Tutti ragazzi sui vent'anni, tutti pronti a uccidere e a farsi uccidere, come Seif, che è passato letteralmente dalle capriole al desiderio di morte. "Non aspettarmi vivo" è la frase che dicono alla mamma, con la quale continuano a chattare fino al giorno prima di farsi esplodere, promettendole "Ci vediamo in paradiso". Si lasciano convincere che quella che stanno vivendo non è la vita vera: ed è questo il tema che più di tutto ci ha sconvolto».

Un libro buonista? «Ci aspettiamo che qualcuno possa giudicarlo così», prosegue Stefania Miretti. «Ma è certo che noi tendiamo a vedere solo una parte della tragedia, quella delle vittime degli orribili attentati jihadisti, e prevalentemente delle vittime europee. Il terrorismo ha fatto anche decine di migliaia di morti in Medio Oriente. Abbiamo voluto raccontare la pena di intere comunità musulmane che assistono impotenti alla trasformazione di un ragazzo qualunque in un integralista religioso, finché un giorno il ragazzo scompare per farsi vivo dopo un po' su Facebook, preannunciando il proprio martirio».

C'è una famiglia indimenticabile all'inizio del libro, quella del colonnello e medico Fathi Bayoudh, di sua moglie Saida pediatra, e del loro figlio unico Anouar, amatissimo e sconclusionato, che sparisce mentre i genitori gli stanno pagando l'ennesimo tentativo di università in Svizzera e dopo poche settimane telefona dall'inferno siriano, chiedendo a papà di salvarlo. Il colonnello lascia tutto e parte per la Turchia, da dove cerca di organizzare il rimpatrio del ragazzo; perde il lavoro, la salute, la reputazione, i risparmi di una vita, ma dopo mesi riesce finalmente a fargli passare il confine. E poche ore dopo, il 28 giugno 2016 all'aeroporto di Istanbul, salta in aria insieme ai tre kamikaze che in quell'attacco uccidono 45 persone e ne feriscono 239.

Ci sono padri che trascinano i figli al commissariato con il computer sottobraccio, perché la polizia impedisca loro contatti con i reclutatori; padri che riempiono di botte il salafita di famiglia, in modo da costringerlo a letto e impedirgli di partire per un po'; padri che patiscono un'emarginazione sociale pesantissima dopo che un figlio si è arruolato. Ci sono soprattutto, nel mondo musulmano, moltissimi padri depressi e angosciati che si interrogano sul proprio ruolo.

«Noi pensiamo spesso alla disperazione delle madri», osserva Stefania Miretti, «ma chi viene davvero messo in discussione dai giovani jihadisti è soprattutto il maschio musulmano adulto, il padre o il fratello maggiore che lo affianca. I più giovani contestano loro la mancanza di autorevolezza, l'essersi lasciati marginalizzare. Hanno in mente la grandeur musulmana di tempi lontanissimi e davanti agli occhi la crisi economica, la delusione verso l'Occidente che li ha celebrati quando facevano la rivoluzione, ma oggi non rilascia più visti per chi vuole partire legalmente. Il primo passo del reclutamento è sempre spiegare al ragazzo che i genitori non sono buoni musulmani, e poi proporre a lui e agli amici questa grande avventura di gruppo che promette di riscattarlo dal senso di fallimento, di impegnarlo in un progetto identitario grandioso».

«Ai nostri genitori», recita la dedica di questo reportage. E non a caso, perché è soprattutto il cuore dei genitori a stringersi davanti alla cupa metamorfosi del calciatore, dello studente, dell'innocuo bellimbusto da bar in un crudele assassino. Ma gettare un fascio di luce sul dolore dei "nemici" illumina inevitabilmente anche il nostro. «È impossibile non pensare che anche i nostri ventenni camminano sull'orlo del precipizio», dice Stefania Miretti. «Nichilismo, disoccupazione, dipendenza da Internet, inclinazione a lasciarsi sedurre dagli ideali forti, sono tutte cose che hanno in comune».

Tra i sintomi della radicalizzazione, secondo gli psicologi francesi che si occupano di prevenire la diffusione dell'integralismo religioso, spiccano il vittimismo, l'identitarismo, il complottismo. Uno schema di pensiero che è facile riconoscere nel mondo musulmano, ma anche nelle periferie delle città europee e, in generale, nella mente di una generazione fragilissima e già delusa, senza distinzione di confini nazionali. Quella di Seif, il ballerino che prese il kalashnikov. E di tutti i figli che ci ricorda.