Giada Sundas è una di noi. Anzi, Giada Sundas è una moderna eroina. Sì, perché se hai il coraggio di scrivere, nel tuo romanzo d'esordio a tema maternità, delle tante volte in cui hai sgocciolato sugo sulla testa di tua figlia neonata, o di quando tutto era così duro da farti accarezzare l'idea di lasciare la pargola davanti al primo Penny Market e partire per la Polinesia francese, beh per noi no, non sei una madre cattiva. Anzi, ti meriti grosso modo il rispetto di una Rosa Parks. Sundas con il suo Le mamme ribelli non hanno paura (Garzanti) ha fatto qualcosa di raro e importante: ha svelato il lato orrido e oscuro del diventare madre, raccontando, qui sta il bello, quella verità che in poche osano dire, soprattutto su quei social dove ogni cosa sembra perfetta. Così tra un trippambulismo, sindrome che fa sì che una gravida si diriga al supermercato in stato catatonico e acquisti solo prodotti contentati almeno 200 calorie, strani sintomi da nono mese, come il desiderio di ingurgitare pastiglie per la lavastoviglie, e quel terreno magmatico che sono i primissimi mesi di vita di un neonato, quando, racconta Sundas, «assunsi il consueto aspetto del clochard tiburtinense, barba e baffi compresi: capelli coalizzati in un unico grande gomitolo rasta, caccoline negli occhi a crescita perpetua, fiatella marinata e outfit Pigiama's Secret», il suo libro è un'autentica catarsi genitoriale, che libera dai sensi di colpa e fa sentire, finalmente, meno sole nei nostri amorevoli fallimenti.

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Giada, innanzi tutto chi sono le mamme ribelli?

Le mamme normali. Quelle, cioè, che si ribellano allo stereotipo della mamma che non esiste, quella perfetta, quella che prepara il ciambellone a colazione e nel frattempo legge favole, sempre felice, sempre contenta e che dall'istante in cui ha avuto in braccio il suo bambino se ne è innamorata all'istante. Il titolo sta a significare: le mamme normali non hanno paura di dire che la maternità fa anche un po' schifo e a volte è una immensa, gigantesca rottura di scatole.

Il capitolo in cui racconta la nascita e le prime ora con Mya è il più tosto: c'è voluto coraggio a dire quelle cose?

Sì, ma era necessario. Anche la mia editor mi chiedeva di continuo se non avessi niente di bello da dire su quel momento, e io rispondevo imperterrita: no. La verità è che le prime settimane dopo il parto sono state molto dure. Quindici giorni dopo la nascita di Mya sono andata a un incontro con altre mamme e un'ostetrica, e alla domanda «Come va?», tutte a dire «Bene, il bimbo è bravo, tutti sommato qualche minuto dormiamo…». Io sono saltata su e ho detto: ma beate voi, io sono 15 giorni che non dormo, mi tirano i punti, piango ogni volta che faccio la pipì, rivoglio la mia vita indietro. Ho aperto una diga: da lì si sono sfogate tutte, fino alle lacrime. Perché, mi chiedevo, volete nascondere che siete stanche e state male?

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Qual è stato l'aspetto più duro del diventare mamma così presto?

La stragrande maggioranza degli amici che spariscono. Perché nella visione delle cose di un 21enne se tu hai un bambino in pratica non esisti più. Ma non la vedo come una cattiveria, la prendo più come una mancanza di presa di coscienza. I miei cosi detti amici non pensavano che pur avendo fatto una figlia fossi ancora una persona viva, vegeta e desiderosa di partecipare ad eventi.

Il consiglio che, di cuore, darebbe ad altre giovani e meno giovani mamme?

Siate sincere e dite che state male, non fate finta di essere felici se non lo siete. Se poi lo siete, meglio, ma se qualcosa non va non vergognatevi del vostro malessere. Amo Mya a perdifiato, ma non per questo nego di aver desiderato indietro la mia vita, per qualche momento.