Avete amici che hanno già visto Dogman e ve lo consigliano spassionatamente. Vi siete letti decine di recensioni del film, tutte bulgaramente entusiaste. Vi siete pure commosse leggendo la storia di Marcello Fonte, l'esordiente quarantenne protagonista del film, nato in una baraccopoli di Reggio Calabria, che a Cannes ha scippato la Palma per la miglior interpretazione ad attori gallonati e famosi. Siete per giunta tra i tanti convinti che Matteo Garrone sia uno dei migliori registi che abbiamo in Italia, se non il migliore. Che fate? Il film è già in sala da un po' eppure ancora tentennate. Sappiamo che siete in tanti: questo pezzo è per voi, leggetelo fino in fondo e cambierete idea.

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Marcello Fonte al Festival di Cannes, dove ha vinto la Palma per la miglior interpretazione.

Niente spoiler, tranquilli. Del resto, la vicenda a cui esplicitamente si ispira Dogman, il delitto del Canaro della Magliana, rievocato da diversi libri e da un altro film che esce in questi giorni), è uno dei più noti e inquietanti fatti di cronaca nera degli anni Ottanta, i cui agghiaccianti dettagli ancora tormentano i nostri incubi, a distanza di decenni. Anzi diciamolo: è proprio questo che vi frena. Non avete nessuna voglia di vedere un film splatter, cruento, ansiogeno, per quanto bello. Comprensibile.

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Marcello Fonte in Dogman, al cinema.

Va detto intanto che poco di ciò che si scrisse ai tempi sulla vicenda, quasi nulla delle immagini più ripugnanti e cruente che ancora quel delitto rievoca, corrispondono alla realtà dei fatti. È vero, certo, che Pietro De Negri, che tutti chiamavano amichevolmente er canaro, gestiva un negozio di toelettatura per cani in via Della Magliana 253, in una delle zone più degradate della periferia romana: fu lui stesso a confessare di aver attirato nella sua bottega con una scusa, la notte del 18 febbraio 1988, l'ex pugile dilettante Giancarlo Ricci e di averlo ucciso selvaggiamente.

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Edoardo Pesce e Marcello Fonte, nei panni di Giancarlo Ricci e Pietro De Negri in Dogman.

Come è vero che la vittima era un criminale cocainomane, un bullo del tutto fuori controllo, che angariava gli abitanti del quartiere con le sue scorrerie, rubando, minacciando, devastando locali. È innegabile pure che il canaro, da tutti definito una persona timida, ma gentile e cordiale, intrattenesse un rapporto morboso con il Ricci, di cui, per paura o ricatto, era diventato una sorta di socio riluttante, finendo per condividere con lui anche la dipendenza e lo spaccio di cocaina. Fino a scontare al suo posto mesi di carcere a Regina Coeli per una rapina che il Ricci commise bucando la parete del suo negozio per accedere a un altro locale da svaligiare.

come può un uomo mite e pacifico, un padre affettuoso, un professionista appassionato del suo mestiere diventare uno spietato assassino che rivendica con orgoglio torture e crudeltà?

Quello che pochi sanno è che tutti i dettagli cruenti, le amputazioni, le ferite inferte e cauterizzate con la benzina e con il fuoco (persino il particolare terrificante del cervello "lavato" con lo shampoo per cani), le infinite sevizie insomma che il canaro, acciuffato dalla Polizia due giorni dopo e reo confesso, dichiarò di aver perpetrato, e sui quali cronisti di nera almanaccarono per giorni, sono state successivamente smentite dai medici legali che effettuarono l'autopsia sul corpo del Ricci. Che morì senz'altro di morte violenta, ma pare non subì torture da vivo.

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Il cast di Dogman al photocall del 71mo Festival di Cannes: da sinistra, Francesco Acquaroli, Edoardo Pesce, la piccola Alida Baldari Calabria, il regista Matteo Garrone e Marcello Fonte.

È su questa sconcertante discrepanza tra la confessione spaccona del canaro, il suo probabile "vissuto" annebbiato dalle manciate di cocaina che consumò quella notte, e la realtà dei fatti, sul mistero che ancora regna a proposito dei moventi reali che portarono un uomo mite e pacifico, un padre affettuoso, un professionista apprezzato e appassionato del suo mestiere a diventare uno spietato assassino che rivendica con orgoglio torture e crudeltà, che Matteo Garrone costruisce la sua storia: una storia diversa, ambientata in un'altra periferia, più languida e livida, priva dei dettagli macabri e turpi che connotarono i fatti di cronaca.

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Una vicenda che in fondo, suggerisce il regista, riguarda tutti noi e il nostro straziante bisogno di essere amati. ll desiderio spasmodico di compiacere chi ci sta intorno, che condiziona ed esacerba azioni e comportamenti. «Questo non è un film di torture», promette il regista di Gomorra, in un'intervista che uscirà sul numero 21 di Gioia! (in edicola dal 31 maggio). «Questa è una storia d’amore. Alla base c'è il racconto di un papà che vorrebbe dare tutto a sua figlia. Credo sia il mio film più dolce, il più femminile».