Cosa fare dopo? Ce lo siamo chiesti nel 2001 dopo le Torri gemelle a New York e ben due volte nel 2015 a Parigi, dopo Charlie Hebdo e le stragi del Bataclan. Ora ce lo chiediamo dopo gli attacchi dell'Isis a Bruxelles il 22 marzo, all'aeroporto e nella metropolitana, che hanno provocato (finora) 34 morti e oltre 300 feriti. A mano a mano che gli attentati si avvicinano alle nostre case, alla routine quotidiana, i dubbi si moltiplicano. Cosa sta succedendo? E, soprattutto, cosa dobbiamo fare, noi persone normali? Abbiamo chiesto di fare il punto della situazione a Fabrizio Eva, docente a contratto di Geografa politica ed economica all'Università Ca' Foscari, sede di Treviso, da anni studioso delle dinamiche che limitano gli strumenti per risolvere le crisi che martoriano il mondo. Ecco le sue spiegazioni alle domande che ci poniamo ora o che ci inseguono, ormai, da molti anni.

Hanno attaccato Bruxelles per attaccare l'Europa?

Non esattamente. Ciò che è successo il 22 marzo a Bruxelles ha a che vedere relativamente con la città simbolo dell'Unione europea. A Bruxelles ci sono sei polizie diverse e quindi tra le maglie delle competenze non condivise ci si muove più liberamente. Che possibilità di integrazione ci possono essere in un Paese diviso storicamente tra fiamminghi e valloni che si discriminano l'un l'altro? Nel recente passato la nazione non ha avuto un governo per più di un anno. È mancata la pratica della democrazia, dell'uguaglianza, dei diritti, che non sono solo valori universali, ma devono essere comportamenti da mettere in atto.

Come è possibile farsi saltare in aria?

Per alcuni esseri umani morire è considerato un vantaggio in una certa fase della propria vita. Ormai dobbiamo fare i conti con questa idea per noi inammissibile. Siamo portati a considerare i kamikaze folli o sociopatici, perché solo così possiamo concepire il loro comportamento. Invece dobbiamo riflettere sul fatto che ogni essere umano ha la necessità di dare un senso alla propria vita, un bisogno fondamentale che può prendere derive anche pericolose: gioco, alcol, droga, violenza. La cospirazione diventa un'idea-transfert che può risolvere questa necessità: riempie la vita. 

Il kamikaze è un uomo senza qualità?

Il Daesh (acronimo arabo di Isis, in questo modo si evita di chiamarlo Stato islamico e di dare a un movimento terroristico rilevanza sociale e politica) in questo momento è l'idea-transfert di successo che viene proposta come possibilità di realizzazione a giovani, prevalentemente maschi, dai 18 ai 35 anni che vivono o credono di vivere situazioni di esclusione sociale in Europa, non vedono possibilità di crescita all'interno di società nelle quali magari i loro padri si sono integrati. Spesso vengono reclutati nelle carceri, non c'è luogo migliore per fare leva su due valori-base per il movimento: sfogare l'odio accumulato e l'idea che morire sia un vantaggio. Può avere un senso forte, anche di rivalsa. Per uccidere a caso non devi essere bravo, capace, avere delle qualità, basta che ti dichiari combattente. E questo ti rende forte, potente. E la potenza chiede di essere manifestata nella pratica.

Dovremmo chiudere le porte ai migranti?

Non serve. Primo: le nuove leve, i giovani che sono ormai la seconda e terza generazione di immigrati, hanno passaporti europei che permettono loro di muoversi indisturbati e sfruttano questo vantaggio. Sono centinaia. Secondo: i terroristi provenienti da Siria, Afghanistan, eccetera, con vari passaporti (anche ben falsificati), che non sono nelle liste dell'intelligence, si muovono con accortezza in aereo, auto, treno. Sono decine. Terzo: quelli segnalati o che temono di esserlo e che arrivano con il flusso di migranti sono una minoranza.

Come si esce dal terrorismo?

Nessun fenomeno terroristico ha mai vinto da nessuna parte, neanche negli anni '70, in un'epoca in cui paradossalmente eravamo meno protetti. Non ha vinto l'Ira in Irlanda del Nord, l'Eta nei Paesi baschi, i curdi, i palestinesi, le Br o le bombe nere da noi. Daesh sta perdendo terreno e uomini in Siria, non attecchisce in Turchia, Giordania, né in Arabia Saudita e nei Paesi sciiti. Gli attentati sono la spia della sua debolezza. Daesh verrà sconfitto da un serio e coordinato contrasto militare in Siraq (i territori tra Siria e Iraq in cui si è insediato) e, con il tempo, dalla Storia. Per Gandhi "anche il nemico più terribile alla fine si farà schifo da solo", e noi vorremmo tanto che avesse ancora ragione.

Dobbiamo cambiare vita?

Lo facciamo sull'onda dell'emozione, per qualche giorno non viaggiamo in treno o in metropolitana. Poi la vita riprende le sue necessità. Ma la nostra vita è già cambiata: abbiamo più controlli e meno libertà di movimento e li accettiamo senza discutere se sia giusto o sbagliato. Il Dipartimento di Stato americano il 23 marzo ha emesso questa raccomandazione: «Non andate in Europa, è pericoloso». Dice tutto. Non ce ne accorgiamo, ma il nostro sguardo sul prossimo è già cambiato: notiamo come è vestito, come parla, il colore della pelle. Dobbiamo invece abituarci al fatto che il terrorismo è un avvenimento marginale da noi. Ci sono Paesi, l'Iraq o l'Afghanistan, in cui ogni settimana muoiono decine di persone in un attentato. 

Cosa deve fare l'Europa?

Rafforzare e integrare le informazioni dell'intelligence è necessario. Ma non a caso i governi resistono o rallentano: passare le proprie informazioni sensibili vuol dire passare anche tutti i dati sul proprio sistema nazionale di sicurezza. E poi abbiamo visto, e Bruxelles non è che l'ultimo caso, che l'identificazione potenziale di un pericolo non garantisce che venga evitato. Quindi si deve costruire un nuovo organismo comune che però potrà essere più lento e farraginoso. Ci vuole più conoscenza socio-geografico-antropologica del territorio, ma i servizi non sono fatti per quello, né ci sono organi previsti o preposti ad agire in tal senso.

Che ruolo possono avere le donne contro il terrorismo?

Per ridurre la presa psicologica di Daesh sui giovani, bisogna smontare le due promesse che offre: la necessità del martirio e lo sfogo dell'odio represso verso il nemico (che può essere bianco, occidentale, cristiano, di altra tribù o fede religiosa, o creato su misura). E sono le mogli, le madri, le donne all'interno della famiglia che possono farlo. La loro lotta diventa anche l'opposizione al maschilismo patriarcale della società in cui vivono. Bisogna sostenere le pratiche di autodeterminazione femminile, come fanno alcune ong in Afghanistan e in altri Paesi in confitto.