Il mestiere di Marco Balich è far sognare il prossimo, con eventi spettacolari. Un esempio di eccellenza che il mondo ci invidia. E proprio lui è l'italiano che firma la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi 2016

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Marco Balich, executive producer delle cerimonie di apertura e chiusura a Rio 2016.

Marco Balich, davvero è lei il più bravo?

Non stuzzichi il mio ego, è enorme fin dai tempi dell'asilo.

Ok, allora dove e quando è iniziata la strada per Rio?

Alle Olimpiadi di Torino. Avevo curato il passaggio della bandiera in quelle precedenti, a Salt Lake City: un'esperienza meravigliosa. Quando sono tornato ho convinto i soci della Filmmaster a partecipare alla gara per la cerimonia d'apertura dei Giochi Invernali del 2006 e l'abbiamo vinta. È stato un po' come se un giornalista avesse vinto il Pulitzer. Ti arrivano inviti impensabili, puoi fare di tutto. 

Lei cos'ha fatto?

C'è chi si celebra e chi spinge per andare avanti e più forte. Io appartengo alla seconda categoria. 

Quanto ha spinto?

Da allora ho fatto il flag handover di Rio alle Olimpiadi di Londra nel 2012, la chiusura di Sochi nel 2014 e importanti celebrazioni nazionali in Messico e Kazakhstan. Lo sceicco di Abu Dhabi mi ha chiesto di creare, per la festa della mamma, un evento da 40 milioni di euro. A organizzare i più grandi show di portata mondiale oggi siamo in tre: io, Scott Givens e David Atkins. Non sa che soddisfazione aver battuto gli americani e gli inglesi per l'apertura di questi Giochi.

Dev'esser bravo anche a far quadrarei conti: fino a tre anni fa il Brasile aveva un'economia rampante, oggi è nel caos.

Pensi che per Londra il budget era quattro volte quello attuale, che ammonta a 70 milioni di euro. Fare i conti ci tocca, ma non è un limite. I problemi sono altri: propio in questi giorni le prove generali si sono fermate per due giorni perché non c'era gasolio in tutto il Paese. Un fatto più impensabile che imprevedibile.

Dovremo aspettarci delle sorprese? 

L'apertura non sarà un evento fastoso, ma denso di valori. Ci saranno tre momenti, uno dei quali riguarderà la sostenibilità e il futuro del Pianeta. Ho la presunzione di pensare che su questo tema segneremo un punto e accapo.

Il Brasile assomiglia all'Italia?

Ovunque ti giri, vedi una piccola tasca di poesia, come a Napoli. È l'arte di arrangiarsi, simile alla nostra, che qui chiamano «gambiar».

E lei è cambiato, stando qui?

Molto. Mia moglie mi ha lasciato durante le Olimpiadi Invernali a Torino perché ero diventato intrattabile. Ora è venuta a trovarmi con i nostri quattro figli e dice che mi trova calmo e sereno. Mi ci sono voluti 10 anni e 23 cerimonie, ma è un bel risultato.

Cosa abbiamo noi italiani che gli altri non hanno?

La capacità di emozionare, che è anche la mia unica droga. Quando ho voluto l'Albero della Vita, per l'Expo di Milano, l'ho fatto chiedendo a tutti: che cosa avranno i bambini da disegnare, quando torneranno da questo incredibile evento? La risposta era già lì.

Dubbi dell'ultim'ora?

Ne ho tre: un meccanismo tecnico da testare, la complicata convivenza con un Paese oggettivamente in difficoltà e l'emozione di sapere che tutto il mondo - dal Papa a Madonna, dai capi di Stato al ragazzino del più remoto villaggio in Africa - ti sta guardando. 

È commosso?

Ci sono 3800 volontari per l'apertura e 4200 per la chiusura di queste Olimpiadi. Quando qualcosa va storto, alla fine si sorride e si balla comunque: c'è un'energia difficile da descrivere. All'esterno trasmetteremo un messaggio possibilista e lungimirante per il futuro della Terra, ma all'interno celebreremo la parte più povera della popolazione. Se questa parte di umanità si sentirà orgogliosa al punto di dire: «Vedi? Allora anche noi valiamo qualcosa», questo per me significherà più di qualsiasi incentivo economico.

Prossimo obiettivo?

Le Olimpiadi in Giappone, nel 2020. Ci hanno appena contattato.