Se è vero che i sondaggi sono il regno dell'utopia, una delle prospettive migliori per guardare il futuro e le sue possibilità è la Millennials survey di Deloitte, l'indagine che la società di consulenza strategica (una tra le più importanti al mondo) pubblica ogni anno per dire che cosa cercano i giovani quando cercano lavoro. In realtà, lo studio è un servizio alle aziende che vogliono assumere under 40 (in giro c'è chi lo fa), ma leggerlo aiuta a intercettare le aspettative di una generazione per la quale la ricerca di un impiego o la costruzione di una carriera sono corse a ostacoli da cui i più escono con le ginocchia sbucciate.

Gli intervistati (8 mila da 30 Paesi diversi: tutti laureati, tutti nati dopo il 1982 e tutti impiegati a tempo pieno in posizioni di vertice) sono tra i pochi a vantare un percorso netto. E della felicità professionale danno una ricetta univoca: il lavoro ideale è quello che concilia flessibilità e sicurezza. Perché (quasi) nessuno ambisce a un posto che duri per la vita (i millennials sono creature mobili, solo il 31 per cento si immagina nella stessa azienda per più di cinque anni), ma tutti vorrebbero un impiego full time che sia così elastico (in termini di orario, di organizzazione e luogo di lavoro) da incastrarsi con la vita privata.

Conciliare sicurezza e flessibilità è la grande utopia del nuovo millennio: si chiama flexicurity

La flessibilità, però, è un mostro a due teste: una sorridente e l'altra no. Da un lato evoca organizzazione agile del lavoro, smart work, caffè trasformati in ufficio; dall'altro trasferisce l'idea di elasticità sul piano dei contratti e dei diritti. E allora, diventa sinonimo di contratti a termine, contratti atipici, partite Iva da 1.000 euro al mese e un solo cliente, voucher, zero ore, diritti ridotti all'osso dalle ferie alla malattia, alla maternità. Ogni Paese europeo ha le sue forme specifiche, ma il principio vale per tutti. Tant'è che conciliare sicurezza e flessibilità è la grande utopia del nuovo millennio. L'idea non è nuova e ha anche un nome: flexicurity. Il primo a usarlo, negli Anni 90, fu il premier danese Poul Nyrup Rasmussen per indicare un sistema economico in cui per le aziende licenziare è facile quanto assumere, e in cui chi perde il lavoro accede a sussidi e a percorsi di formazione e rientra in attività in tempi brevi. L'esperimento funzionò bene in Danimarca e in Olanda, e nel 2004 il rapporto Affrontare la sfida della Commissione europea invitò il resto dell'Unione a seguire l'esempio: «L'idea non è più garantire il posto di lavoro a vita, ma permettere alle persone di rimanere sul mercato del lavoro e progredire».

Sembrava facile e bellissimo, ma 13 anni più tardi la sfida è ancora aperta. Nessuno in Europa sembra aver trovato il baricentro della flexicurity: chi esce dal sistema difficilmente rientra, e chi sta dentro il più delle volte è senza rete. Come i fattorini di Foodora che consegnano il cibo a domicilio con le loro biciclette: da co.co.co guadagnano 4 euro lordi a consegna e se si ammalano non prendono una lira. O quelli di Deliveroo che fanno lo stesso lavoro e se superano i 5.000 euro di reddito devono aprire una partita Iva. Come i dipendenti dei fastfood di cui parlano Giovanni Arduino e Loredana Lipperini nel libro Schiavi di un dio minore. Sfruttati, illusi, arrabbiati: storie dal mondo del lavoro di oggi (Utet): 200 euro al mese per 8 ore a settimana, 900 euro full time, niente ferie, niente permessi di sabato e domenica. Com'era, o comunque ci si sentiva, Michele, il giovane grafico che non ha retto la delusione dei troppi colloqui andati male e si è ucciso lo scorso febbraio. «Di precariato si muore», ha scritto l'economista Marta Fana nel prologo del suo libro Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza), parlando della generazione «a cui avevano detto che sarebbe bastato il merito e l'impegno per essere felici. Oggi ci si suicida perché derubati di possibilità, di diritti, di una vita libera e dignitosa. Qualcosa è andato storto e c'è chi continua a soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali».

In Italia il sistema produttivo è rimasto di scarso valore, incapace di riassorbire chi è uscito

Che cosa sia andato storto lo spiega Andrea Garnero, economista al dipartimento Lavoro e affari sociali dell'Ocse: «Dare sicurezza non significa inchiodare le persone a un posto di lavoro per la vita, un posto che magari sopportano in assenza di alternative: vuol dire metterli in condizione di cambiare lavoro, e di sapere che se il lavoro si perde, si trova di nuovo. In Italia il problema è che le riforme sono andate verso la flessibilità, ma il sistema produttivo è rimasto di scarso valore, dunque incapace di riassorbire chi è uscito». Poi, dice, bisogna proteggere i lavoratori. Aperture in giro per l'Europa ce ne sono tante, dall'estensione dell'indennità di malattia agli autonomi in Irlanda, al diritto alle ferie pagate sancito da una sentenza per un commesso self-employed inglese, alle tutele previste per gli autonomi dal Jobs Act. L'esperimento più interessante, secondo Garnero, è il "conto personale di attività" francese. «I diritti in genere restano legati ai contratti di lavoro: maternità, disoccupazione, indennità di malattia, ferie. In un mondo come il nostro in cui le transizioni tra lo stato di dipendente e quello di autonomo sono frequenti, andrebbero spostati invece sulla persona. L'idea francese è dare vita a un conto unico che parte vuoto e poi si riempie di crediti accumulati a prescindere dallo status in cui ci si trova. E si parla di estendere il sussidio di disoccupazione anche a chi si licenzia, e agli autonomi. È l'unico modo di guardare al futuro». L'unica rivoluzione possibile.