Il sole sa far sembrare accettabili anche le cose brutte. Come se anche la peggior sentina, sotto un cielo azzurro, mostrasse al mondo di avere in sé una possibilità di riscatto. È quello che penso, attraversando Scampia, mentre passo davanti alle Vele in una mattina di vento e nuvole. Viste dalla strada sembrano alveari che cascano a pezzi: mezzi vuoti e mezzi pieni di vite che da fuori è difficile immaginare. Ci ha pensato e ci pensa Gomorra (ora in onda su Sky con la terza, riuscitissima, stagione) a raccontarle, ma attraverso un copione che taglia via le sfumature della vita reale. Dove non ci sono solo la camorra con i suoi traffici, lo spaccio e le sparatorie, i morti e la miseria che anestetizza tutto, ma anche chi, in quei posti, vive vite luminose e piene. La tv ha acceso i riflettori su questo posto portando un senso di riscatto, attenzione e anche un po' di ricchezza. Ma, dicono qui, ha raccontato solo metà della storia di queste terre e della gente che ci vive. Vale per Scampia e per tutti gli altri posti tenuti sotto scacco. Come Casal di Principe, di cui tanto ha scritto anche Roberto Saviano, o come Caivano, il paese degli orchi. Dove c'è la camorra, c'è anche chi resiste e prende la direzione opposta. E oggi sono qui per raccontare le loro storie.

Le poliziotte

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Carmela Serrone e Veronica Quaranta, 37 anni, ispettori capo del commissariato di Scampia. Sullo sfondo, le Vele.

Carmela Serrone e Veronica Quaranta sono donne (belle) e sono poliziotte; lavorano nella sezione anticrimine del commissariato di Scampia. Quarantamila anime per quattro chilometri e mezzo di spazio, dove ci sono i parchi chiusi di chi vive bene e le Vele, che per un'eternità sono state una delle più grandi piazze dello spaccio in Italia. In quel posto, dove l'educazione di genere è all'anno zero e le donne neanche sanno le violenze che subiscono, Carmela e Veronica hanno convinto molte che dall'inferno delle botte c'è una via di uscita. «La prima che abbiamo salvato non posso dimenticarla. Non aveva più niente di umano: si alzava soltanto perché doveva dare da mangiare alla figlia disabile. Aveva lividi ovunque, e nemmeno un dente in bocca a forza di prendere pugni. Viveva segregata in casa, col marito che la chiamava ogni tre minuti per controllarla».

Carmela alterna le parole ai sorrisi e fa venire voglia di sorridere anche a te. «Tante trovano normale prendersi uno schiaffo se non lavano i piatti. E poi c'è il condizionamento sociale. Ricordo una donna che aveva denunciato il marito e il giorno dopo è tornata per rimettere la querela, nonostante i lividi. La famiglia e la gente del quartiere le davano dell'infame e lei non reggeva». All'inzio, racconta Veronica, gli uomini urlavano: «Ispetto', prima non dovevamo spacciare, ora non possiamo nemmeno picchiare le mogli?». Per mesi, quando nel 2012 hanno cominciato il lavoro con le donne, nessuna si è presentata. Oggi ricevono un centinaio di denunce ogni anno (e anche qualche minaccia). «Quando una donna passa per dirti grazie, e magari si è fatta la tinta ai capelli o è andata dal dentista, hai il senso di quello che fai: aver fatto capire che c'è sempre un'alternativa».

Le operatrici

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Le operatrici del centro di prevenzione della violenza di WeWorld a Scampia; da sinistra: Marianna Ferraro, Antonella Russo e Roberta Fiore.

La prima volta che Antonella Russo ha messo piede nelle Vele la ricorda bene. «Tornata in ufficio, il mio capo mi chiese come stavo. Bene, risposi io, perché? E lui: Tanta bruttezza fa male agli occhi», racconta accompagnandomi tra le stanze del centro di prevenzione alla violenza di WeWorld a Scampia. Mi mostra la sala piena di disegni dove lei lavora con i bambini. In un angolo, c'è una casetta costruita con le bottiglie di plastica, di fianco un'aspirapolvere giocattolo. «Mi servono per far capire che le femmine possono costruire le case, i maschi passare la scopa elettrica», spiega. Antonella è una delle operatrici. Parla delle Vele perché alcuni dei bambini con cui lavora vivono lì. «Non conoscono le emozioni, piangono e non sanno perché, dicono che sono arrabbiati e invece, sotto la rabbia, trovi un pozzo di tristezza». Roberta Fiore, la responsabile del centro, mi spiega che questi bambini arrivano da famiglie in cui l'aggressività è in fondo a tutte le relazioni umane. «Genitori e figli si parlano urlando perché è il solo modo che conoscono per dirsi le cose. Questo ti fa stare sempre in difesa o in attacco».

Liberare i piccoli dall'ansia può cambiare le loro vite, come sa Antonella. «Qui è pieno di bambini che finiscono in neuropsichiatria perché urlano e litigano. La scuola o i servizi sociali fanno una segnalazione e la strada è segnata. Le liste di attesa nei reparti sono infinite. Le madri riempiono i figli di farmaci e si vantano pure: quelli sbagliati sono i bambini, loro brave mamme che li portano in ospedale. E invece, abbassando la soglia dello stress, evitare la neuropsichiatria è possibile». Racconta di un bimbo arrivato lì a tre anni: «Sembrava autistico e invece aveva solo visto cose troppo brutte». Non fanno miracoli, dice Roberta, ma aiutano le donne e i loro figli a prendersi quel pezzetto in più che serve nelle loro vite. Mangiare con la famiglia invece di servirla, indossare la gonna al posto della tuta, trovare dignità.

La preside

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Eugenia Carfora, 58 anni, preside dell\'istituto superiore Francesco Morano di Caivano, Napoli.

Quindici chilometri a nord di Scampia, Eugenia Carfora dice: «Vieni con me», e mi prende per mano come le ho visto fare, dieci minuti prima, con uno dei suoi studenti. Ti prende per mano perché sa che il mondo è un posto pericoloso e perdersi è facile. È la preside dell'istituto superiore Francesco Morano del Parco Verde di Caivano, dove l'abbandono scolastico è al 40 per cento, intere famiglie vivono sullo spaccio e i bambini sono manodopera a basso costo. Lei, le mani le ha usate per strappare quei bambini alla camorra, per suonare i campanelli delle loro case e tirarli giù dal letto. Le ha usate per ripulire (letteralmente) due scuole (prima la Raffaele Viviani e ora la Morano) che ha preso in gestione fatiscenti e trasformato in posti dove lo Stato e la legalità sembrano alternative possibili. E ora, quelle mani, le usa per stringere la mia e portarmi in uno di quei luoghi che pensi esistano solo nei film, e invece sta sul retro della sua scuola: due file di palazzi popolari con le grate alle finestre, le tende verdi, le parabole satellitari sui balconi e in mezzo un giardino. Giù da un palazzo come questo, poco più in là, è finita la piccola Fortuna Loffredi, vittima dell'orco che aveva in casa. Qui sotto, invece, tra le aiuole sporche, le piante e i detriti, ci sono due gabbie piene di pitbull per scongiurare visite indesiderate. Lì si affaccia una delle uscite della sua scuola. «Questo edificio non poteva essere usato: in teoria perché l'uscita non era agibile, in pratica perché i ragazzi avrebbero dato fastidio al "mercato". Ho fatto una denuncia e ho ottenuto i lavori di adeguamento per i laboratori dell'alberghiero. Il tubo del gas l'ho aspettato un anno e mezzo, ma alla fine ce l'ho fatta».

Mezz'ora dopo, nel suo ufficio, racconta come è arrivata lì. «Mi occupavo di dispersione scolastica in provincia di Caserta e lavoravo per l'integrazione degli immigrati. Un giorno una prostituta mi disse: porta mio figlio a scuola, salva lui. Così, quando anni dopo vinsi un concorso come dirigente, scelsi una scuola dimenticata da Dio: la Raffaele Viviani di Caivano che nessuno voleva». Eugenia va lì e comincia a lottare per salvare i bambini. «All'inizio nessuno veniva a scuola. Una mattina, per disperazione, ho suonato a un campanello e ho fatto scendere il ragazzo. Funzionava. Ma questo ha dato fastidio: tanto che quella scuola è stata soppressa». In teoria, perché mancavano tre allievi per raggiungere il numero minimo. «Ma io non mi arrendo: questi bambini da che sono nati hanno sentito il suono delle sirene, i cani antidroga che abbaiano, i colloqui del venerdì in carcere dalla mamma o dal papà. Senza regole, con loro ci vuole pazienza». Anche se ha paura non riesce a fermarsi. «Voglio che nessun ragazzo dica: mi ha visto e non ha fatto niente».

La giornalista

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Marilena Natale, 45 anni, giornalista della tv locale Più N News.

Casal di Principe, ultima tappa di questo viaggio nell'anti Gomorra, è un labirinto di strade tutte uguali spezzate qua e là da qualche villa che sembra uscita da un set di Bollywood. Perdersi è facilissimo, specie seguendo l'auto di Marilena Natale, giornalista della tv PiùN News, un fuoco d'artificio sempre acceso nel fondoschiena della camorra, lì a illuminare i suoi traffici 24 ore su 24. Una che in tribunale si sostituisce alle vittime delle estorsioni incapaci di denunciare, una che dalla moglie del boss Francesco Schiavone ha ricevuto una querela, non per diffamazione ma per stalking. Da febbraio vive sotto scorta. «Sono 282 giorni», racconta, seduta in una casa confiscata a un boss della camorra diventata sede di un'associazione antimafia, ed è l'unico momento di questa intervista in cui il tono della voce sa di resa. Poi mi spiega il perché e si ricarica di orgoglio, di sfida. «Sandokan, in galera, ha fatto segno di tagliarmi la testa».

Per denunciare i traffici della camorra ho scritto un articolo al giorno per 365 giorni. Ho detto ai miei figli: se mi ammazzano, non cercate la vendetta ma la giustizia. E portate avanti quello che faccio

Sandokan è il boss più potente del clan dei Casalesi. «Ho scritto che in carcere ha avuto problemi con un altro boss, che sua moglie non va ai colloqui, e che i figli vivono come dei principi anche se, in teoria, non guadagnano una lira. Per me queste sono notizie». Fa la giornalista da quando ha 16 anni, sempre per giornali e televisioni locali. «Ho cominciato a scrivere per dare voce alla mia terra perché tutto quello che succedeva qui, sui giornali nazionali non ci finiva. Un pazzo di direttore mi ha fatto scrivere perché ha visto che io non avevo paura di niente. L'11 luglio 1998, quando Sandokan fu portato fuori dal bunker, io c'ero. E c'ero anche il 15 giugno del 2010, quando hanno arrestato il figlio. E, se non mi ammazzano prima, ci sarò anche quando toccherà ai nipoti». Viene da una famiglia di carabinieri e quando ha realizzato che attorno a lei c'erano più camorristi che persone per bene ha iniziato a gridare.

«Capita la collusione tra camorra e politica, ho scritto un articolo al giorno per 365 giorni. È lì che sono finita sotto scorta: se scrivi degli arresti, non importa, se racconti la verità dei loro traffici non te lo perdonano. Guadagno 1.230 euro. E sono felice. Non me ne frega di rischiare la pelle: voglio che queste persone se ne vadano». Le cose, dice, un po' sono cambiate. «Oggi puoi camminare a testa alta. Ma i figli dei boss vanno all'università e un giorno ce li vedremo nei posti che contano». Paura lei non ne ha. «Voglio che le persone abbiamo fiducia in se stesse. Mi sono anche sostituita, nelle denunce, alle vittime di estorsione, facendo da intermediario tra loro e lo Stato in cui credevo. Ai miei figli dico: se succede qualcosa a me non cercate la vendetta, cercate la giustizia. E portate avanti quello che faccio io». Ha due maschi, e poi Aurora, «la cosa più bella che mi sia capitata nella vita». Aurora è la bimba della terra dei fuochi che Marilena ha preso in affidamento. «Quando morì mio padre, per uscire dalla depressione andai a fare volontariato in oncologia con i bambini della terra dei fuochi. Volevo vedere tutto il male che la camorra ha fatto. Lì ho trovato Aurora che mi ha scelta come mamma, mi ha aperto il mio cuore e l'ha fatto uscire fuori. Per lei ho iniziato una partita con la morte. La vincerò. L'ho detto: io non ho paura di nulla».