Un taglio e poi il sollievo. La lametta che incide la carne e al contempo scioglie la rabbia. E poi le maniche lunghe, mille braccialetti, i jeans anche d'estate, la stagione più odiata, a coprire tutto. Quel «tutto» che talvolta è invece mostrato e condiviso su social e blog. Così funziona il mondo sommerso del cutting, la pratica autolesionista che fa sì che da un dolore accecante e inespresso si passi al ferire il proprio corpo, a martoriarlo e perfino a massacrarlo. Un comportamento che gli ultimi dati dell'Osservatorio nazionale adolescenza danno come sempre più precoce, si inizia anche a 11 anni, e sempre più diffuso: due adolescenti italiani su dieci sono autolesionisti. L'11,5 per cento dei ragazzi, inoltre, si fa del male intenzionalmente e nel segreto della propria stanza senza che i genitori sappiano nulla, in modo ripetitivo; e proprio la cronicità, che diventa dipendenza dal dolore fisico, riguarda in prevalenza le ragazze (il 67 per cento del totale). C'è poi un altro dato che è quanto mai importante mettere a fuoco: il 50 per cento di chi pratica cutting è, o è stato, vittima di bullismo o cyberbullismo (anche questi fenomeni sempre più diffusi).

fenomeno del cutting in Italiapinterest
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Così e accaduto a Claudia (nome di fantasia), che mi racconta in una serie di messaggi via Facebook (perché anche al telefono, per lei, studentessa 16enne di un istituto tecnico commerciale, sarebbe troppo difficile parlare) di aver iniziato a tagliarsi «quasi un anno fa per colpa del bullismo che mi fanno a scuola. Lì per me è un terreno di guerra, perché vengo presa in giro, bersagliata, insultata quasi ogni giorno e la mattina, mentre varco la soglia, sento un nodo allo stomaco che se ne va solo quando, a un certo punto della mattinata, mi taglio. Le mie compagne sono cattive, usano nomignoli osceni per chiamarmi e ogni volta che lo fanno per me èuna ferita che si riapre, mi viene una rabbia enorme, mi distruggerei in quei momenti e loro non lo capiscono. Oppure lo capiscono e ci godono». Quando le domando perché per reagire a questi abusi ha iniziato a tagliarsi, lei risponde subito: «Perché avevo letto su Internet che sarei stata meglio. Ragazze come me, un po' sole e additate come "sfigate", dicevano che tagliandosi e poi condividendo le foto con altre autolesioniste su Instagram riuscivano a stare bene. Per un po' mi è sembrato che funzionasse, credevo di avere la situazione sotto controllo. Oggi, invece, vorrei smettere, perché i tagli sono diventati sempre di più e sempre più profondi, un giorno ero così disperata che mi sono massacrata un braccio... Eppure non riesco ancora a chiedere aiuto».

Chi invece è uscita dalla dipendenza da cutting è Marina, oggi ventenne, che anni fa ha deciso di raccontare sul suo blog Diary of a self-harmer, diario di un'autolesionista, un periodo molto duro sfociato nel cutting. Oggi, come scrive lei stessa, è «pulita da più di un anno», ma per riuscirci ha dovuto affrontare il demo-ne peggiore per chiunque debba fare i conti con una dipendenza, cioè parlarne. Lo ha fatto prima con la psicologa della scuola, poi con una psichiatra e da quell'incubo di sangue e cicatrici è riuscita a venirne fuori. Così adesso il blog in cui prima condivideva con altri self-harmer consigli su quali fossero le lamette più taglienti e le dritte per nascondere i segni, è diventato un luogo nuovo e diverso, in cui chi pratica l'autolesionismo può trovare aiuto. Aiuto che naturalmente, passa prima di tutto dal dialogo con un esperto.

Cutting, come uscirne?

Come Maura Manca, presidente dell'Osservatorio nazionale adolescenza, autrice di L'autolesionismo nell'era digitale, primo libro in Italia a raccontare il legame tra cutting e social network (anche questi fonte di dipendenza). «I ragazzi che fanno cutting sistematicamente», spiega Manca, «usano i tagli come veicolo di gestione delle emozioni: una lite con i genitori, un brutto voto a scuola, un episodio di bullismo ed ecco che ci si ferisce per convogliare lì la sofferenza. Il bisogno di tagliarsi fa fluire il dolore: con il sangue esce il negativo che si ha dentro. Il sollievo è ovviamente transitorio, così come è falso il benessere che può dare una droga, e infatti gli autolesionisti parlano di se stessi con i medesimi termini usati dai tossici. Il ruolo che, in più, hanno i social fa leva sulla grande paura dei self- harmer di essere scoperti. Loro si vergognano moltissimo e temono lo stigma sociale più di ogni altra cosa, perché spesso sentono associare a chi ha il loro stesso problema termini come "pazzi" o peggio "scemi". Per cui si rifugiano in Rete dove ci sono tantissime comunità, specie su Instagram e su YouTube, di teenager che condividono questo segreto. Lì e solo lì si sentono liberi di confrontarsi, e sempre lì trovano un "rinforzo" emotivo, che va al di là dei consigli su come non farsi scoprire dai genitori, ma è proprio un rifugio che non li fa più sentire soli».

Resta il fatto che questo rinforzo non risolve le cose, anzi talvolta, dato il peso che il segreto ha sui ragazzi, fa sì che rinuncino alle relazioni sociali in favore del mondo virtuale. Dove non è brutto neppure, per esempio, tagliarsi nelle parti intime; dove anche per gli altri l'estate è un incubo e non un divertimento, e dove in sostanza non ci si sente diversi o matti. Per questo il primo passo di un genitore che ha sentore che il figlio si faccia del male è accoglierlo senza mortificarlo. Bisogna evitare qualsiasi tipo di inquisizione, per far sì che i ragazzi non si chiudano maggiormente, e parlare con loro senza accuse e giudizi, evitando scenate teatrali e drammi familiari: si sentirebbero ancora più in colpa.