La cosa più difficile è stata essere creduta. Io non avevo prove, non avevo testimoni, non avevo lividi. Una donna che subisce violenza ha sempre un occhio nero, io non avevo neppure un'unghia spezzata. Perché la mia violenza era fatta di pugni sferrati con gli sguardi, di calci dati con le parole, di schiaffi assestati con le assenze, i silenzi e i rifiuti. Era una violenza morale, psicologica. Di quelle che non lasciano segni esteriori, anche se dentro la tua anima è tumefatta e tu sei peggio di una che agonizza nella sua pozza di solitudine.

Alberto era il ragazzo più affascinante della comitiva all'università, corteggiato da tutte le mie amiche. A me, invece, non interessava, o forse avevo visto giusto. Anni dopo l'ho incontrato a una cena di lavoro, uscivo da una grossa delusione d'amore, e lui ha cominciato a farmi il filo in modo insistente.

Credo di essermi lasciata conquistare più dal suo successo, dalla facciata, che da un reale innamoramento. Nell'intimità, non provavo quel coinvolgimento fisico e sentimentale che dovrebbe essere il segnale e la base di un amore, di una relazione sana e profonda. Alberto era distante, frettoloso, dispotico. Però poi, in pubblico, declamava il suo amore per me e mi riempiva di attenzioni e regali, facendomi sentire invidiata da tutte. Nel giro di pochissimo tempo siamo andati a vivere insieme, e lui, subdolamente, ha cominciato ad avvolgermi in una sottile tela di ragno.

Io ero un insetto paralizzato e difendevo il ragno danzante che mi aveva ipnotizzata e prendeva per sé tutta l'attenzione, lasciandomi svuotata.

Il primo filo con cui mi ha intrappolata è stato quello dell'insicurezza fisica. Quando la mattina uscivo per andare al lavoro, Alberto mi lanciava un'occhiata di disgusto, oppure mi strizzava il braccio: stava zitto ma era come se dicesse: «Hai la cellulite anche sulle braccia». Dopo un'ora di preparativi, una sua sola occhiata riusciva a farmi sentire a disagio, disordinata. Una delle mie colleghe, Sabrina, mi fece notare che da quando stavo con lui non sorridevo più e che avevo perso smalto e intraprendenza in ufficio. Me la presi molto e troncai ogni rapporto con lei, non ammettevo che qualcuno criticasse Alberto, pensavo fosse solo invidia. Invece aveva ragione, e forse mi stava solo tendendo una mano: io ero un insetto paralizzato e difendevo il ragno danzante che mi aveva ipnotizzata e prendeva per sé tutta l'attenzione, lasciandomi svuotata.

Iniziando dai miei punti deboli, Alberto era riuscito a minare lentamente anche le mie certezze. Non mi guardavo più allo specchio, per strada tenevo gli occhi bassi evitando di incrociare altri sguardi, avevo paura che tutti vedessero le mie braccia grassocce, ed entravo in confusione persino se qualcuno mi chiedeva un'indicazione stradale. In ufficio cercavo di farmi notare il meno possibile, declinavo gli inviti delle amiche e avevo rinunciato anche all'ora di pilates. Non facevo più nulla che non fosse per lui. Finito il lavoro, correvo a casa a preparare la cena o a stirare la sua tuta da calcetto, terrorizzata dalle sue minacce ogni qualvolta mancava qualcosa. Ma qualsiasi cosa facessi, era sbagliata. Una sera, rientrando dalla partita mi aveva lanciato la sacca ordinandomi di caricare la lavatrice. Ma la sacca non era stata nemmeno aperta, non si era accorto che dentro mancavano gli scarpini e la divisa: avevo dimenticato di metterli ed avevo passato la serata immaginando terrorizzata la sua reazione. Caricai la lavatrice ridendo silenziosamente. Il giorno dopo andai da Sabrina e glielo raccontai, lei mi abbracciò felice. Ebbe inizio così la nostra amicizia, una preziosa sorellanza che mi ha salvata. Dopo qualche giorno, accorgendosi che sorridevo, mi guardavo allo specchio e non ascoltavo più le sue critiche, Alberto iniziò a essere più violento, e una mattina, invece di stringermi il braccio mi afferrò per il collo. Quel giorno trovai il coraggio di andare dai carabinieri. «Ma l'ha minacciata di morte o no?», mi chiese il maresciallo da cui mi aveva accompagnata Sabrina. «Non ha parlato, ma il suo sguardo era eloquente», risposi. «Signorina, qui non facciamo processi alle intenzioni», mi azzittì, facendomi sentire una visionaria matta. «Almeno ce l'ha un referto del Pronto soccorso?».

No, non ce l'ho, ancora non hanno inventato la Tac per le minacce. Arrivederci maresciallo, vado con Sabrina e con tutte le altre donne che sanno di cosa sto parlando, e se qualcuna di voi ha bisogno del nostro aiuto venga pure a cercarci nei centri antiviolenza, nell'attesa che anche le istituzioni prendano coscienza di cosa sia e come funzioni davvero la violenza domestica. Le parole possono uccidere. Per fortuna io l'ho capito in tempo.

L'ho scampata e ora lo grido al mondo

Mi guardo allo specchio e vorrei urlare: «Sono viva. Posso guardarmi, esisto!». Annamaria Spina oggi ha 45 anni, vive con il marito Michele a Catania, con due figli di 14 e 10 anni e fa l'attrice. Ma quel giorno del 1993 poteva essere l'ultimo della sua vita. Ci racconta come ha fatto a essere una scampata e perché ha avuto il coraggio di portare la sua storia sul palcoscenico. «Avevo 22 anni e Nino, il ragazzo che avevo appena lasciato perché era geloso e possessivo, una sera mi invitò in discoteca. Che male c'è, pensai. Poi, una volta in macchina, iniziò a inveire: «Puttana, perché vuoi lasciarmi?».

E giù pugni e schiaffi prima sul viso, poi in basso fino allo stomaco. Tra me e la morte c'era una sottile linea di confine, ero priva di forza e di sensi. Non so come ho fatto a uscire viva da quell'abitacolo. Per anni ho sentito addosso le mani e i sospiri di quell'uomo e ho persino fatto fatica a fidarmi di quello che oggi è mio marito e padre dei miei figli. Poi ho capito che dovevo reagire. Dovevo farlo per le altre donne. Così ho unito l'arte all'impegno civile: ho portato la mia testimonianza a teatro, è diventata il monologo Sei mia, come le parole che mi diceva Nino quando eravamo insieme. Solo a pensarci mi vengono i brividi, non era una dichiarazione d'amore, era una minaccia. Nessun uomo può considerare la sua donna una proprietà».

Nino mi diceva sempre «Sei mia», non era una dichiarazione d'amore, era una minaccia

Annamaria Spina recita la sua storia in Sei mia, il monologo che ha scritto con Antonella Sturiale. E che è diventato un corto prodotto da Blu Film, il 25 novembre 2016 è su YouTube. Per il suo impegno contro il femminicidio, a maggio 2016 ha avuto il premio internazionale Livatino-Saetta-Costa.

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Anna Godeassi
Illustrazione di Anna Godeassi.

Mai più vittime

«Fammi le domande brutali. Non trattarmi con i guanti, ok? Usiamo le parole giuste: le parole sono importanti». Nella storia di Federica le parole contano moltissimo, e non solo perché la donna che ho davanti, sguardo da adulta e viso da ragazzina, è una scrittrice.

Il termine violenza, per esempio, non è sufficiente a spiegare quel che le è successo. «Mia mamma si è sposata con mio padre quando era incinta di me. Non so dire quando lui abbia cominciato a picchiarla: me lo ricordo sempre così. Magari la cena non gli piaceva e allora rovesciava il piatto, glielo lanciava addosso, la insultava, la umiliava. E lo faceva davanti a me e alle mie due sorelle. Poi ha cominciato a prendersela anche con noi. Calci, pugni, spintoni, con le mani, con un cucchiaio di legno».

Questo genere di violenza, mi spiega Federica, si chiama violenza assistita. È quando un figlio assiste alla violenza di un genitore sull'altro. È una situazione di grande pericolosità, che lascia nei bambini cicatrici permanenti. Perdi completamente il senso di protezione: da una parte sei terrorizzato dal genitore che aggredisce, dall'altra non ti senti protetto da quello che subisce. «Mia madre non si è mai ribellata. È arrivata a convincersi di meritare le botte, ha perso il senso del limite. Quando lui ha cominciato a picchiarci, credeva che fosse l'unico modo di educare i figli. Negli anni l'ha lasciato più volte, ma poi è sempre tornata con lui. Non è mai andata all'ospedale, andava a lavorare con i segni in faccia. Quel che succedeva in casa doveva rimanere in casa».

A parlare, per la prima volta, è la sorella di Federica. Che si rivolge al Tribunale dei minori. «Ma la notifica della denuncia arrivò quando eravamo tutti in casa. Lui diventò feroce. E riuscì a far declassare le violenze a normali screzi in famiglia». Ma gli screzi continuano e il padre di Federica, che in pubblico è un serio professionista, amante dello sport e del volontariato, in privato continua a comportarsi come un mostro.

Quando vedi tuo padre che picchia tua madre, da una parte sei terrorizzata da lui, dall'altra senti che lei non ti può più proteggere

«Ero già andata via di casa quando mio padre, dopo un anno di quiete, provò a strangolare mia sorella. Lei mi ha chiamata, me la sono andata a prendere. Dopo poco ci ha raggiunto anche l'altra». Unite nella stessa casa, finalmente lontane da lui, le tre ragazze decidono di non tacere più. Dalla loro parte c'è solo il compagno di Federica: «Un uomo diverso da quello cui eravamo abituate. Con lui ci siamo rivolte a un centro antiviolenza e per la prima volta qualcuno ci ha teso la mano. Ci hanno spiegato che la colpa non era nostra. Che mio padre avrebbe comunque trovato un motivo per picchiarci. Che la soluzione era la denuncia». Comincia così un faticoso processo, durato nove anni.

«Nostro padre è stato condannato in primo appello come colpevole di tutte le accuse, senza attenuanti. Purtroppo, per la lentezza del sistema italiano, la parte penale del reato è andata in prescrizione». Oggi Federica è una stimata professionista, una donna che non ha perso la fiducia negli uomini: «Perché sarebbe una violenza nella violenza». L'unica parola che respinge è quella che spesso si usa in questi casi: vittima. «Io non sono una vittima. Mia madre è una vittima. Quando parli ti trasformi, e da vittima diventi una persona che riprende in mano la sua vita. È dura, specialmente in Italia dove i mezzi sono pochi: ma quelli che ci sono bisogna usarli. Se tornassi indietro lo rifarei, perché oggi sono libera dalla paura. La cosa peggiore è stare zitte. «Stai zitta, deficiente» è quello che dicono i violenti. Stare zitte aiuta solo loro».

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Anna Godeassi
Illustrazione di Anna Godeassi.