L’11 ottobre è la Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze, inventata dall’Onu nel 2012 e dedicata a tutte le bambine, in tutti i Paesi del mondo: quelli dove segno di discriminazione è guadagnare il 20 per cento meno degli uomini che fanno lo stesso lavoro, come quelli dove alle femmine è imposto di sposarsi a nove anni. Molte delle peggiori storie di abusi e sofferenze sono raccolte nel dossier InDifesa, dell’associazione Terre des hommes (terredeshommes.it), una delle più attive nella protezione delle ragazze; lì trovate per esempio Amani, 12 anni, schiava domestica in Kenya, o la nigeriana Blessing, che la madre ha costretto a prostituirsi a 17 anni. Ciascuna è una tragedia in sé, che meriterebbe più della nostra saltuaria indignazione, ma alcune storie portano con sé un dolore ancora più grave, effetto di una volontà di annientamento che va oltre l’immaginazione.

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A quelle è giusto pensare particolarmente nella Giornata 2018, che cade subito dopo l’annuncio di uno straordinario Nobel per la pace ex aequo: l’ha vinto Nadia Murad, 25 anni, rapita dai miliziani dell’Isis in un villaggio dell’Iraq nel 2014 e ridotta a schiava sessuale insieme a migliaia di altre giovani yazide: un inferno che ha raccontato all’Onu e in un libro (L’ultima ragazza, Mondadori).

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Nadia Murad, 25 anni, sopravvissuta alle torture sessuali dell’Isis e paladina dei diritti delle donne, Nobel per la pace 2018.

E l’ha vinto il ginecologo congolese Denis Mukwege, 63 anni, che ha dedicato la vita a “riparare” (dice proprio così) decine di migliaia di donne vittime di violenza sessuale nel suo Paese devastato dalla guerra civile. Il Nobel per la pace 2018 è un grido contro lo stupro come arma di guerra. Un’atrocità consueta su tutti i campi di battaglia del mondo, che le docteur Mukwege aveva raccontato così in un’intervista a Gioia! nel gennaio 2014: «La violenza sessuale è pianificata a tavolino, villaggio per villaggio; funziona meglio delle pallottole perché distrugge in un colpo solo tutta la famiglia: questo accade quando le donne vengono violentate di fronte a mariti, figli o suoceri sotto la minaccia delle armi».

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Denis Mukwege, 63 anni, ginecologo che cura le vittime degli stupri di guerra, ha avuto il premio Nobel per la pace 208 ex aequo.

Ha curato vagine incendiate con la benzina, massacrate a colpi d’arma da fuoco o di coltello, ha visto bimbe di tre anni che i soldati si erano “passati” a turno, donne «mutilate, infettate dall’Aids, incinte dei loro stupratori, maledette dalle loro famiglie che le considerano portatrici di morte». La vera notizia è che molte siano guarite. La terapia, ha spiegato il dottore, comincia dalla loro anima: quando riprendono a parlare, quando cessano gli incubi e germoglia la voglia di vivere. Il resto, appunto, «si ripara». (Monica Piccini)

Nadia, Amsha e le schiave di mosul

Il Nobel per la pace a Nadia Murad, giovane donna irachena appartenente alla minoranza religiosa yazida, restituisce senso a un premio che sembrava appannato. Nadia ha 25 anni ed è stata rapita e deportata a Mosul nell’estate del 2014. L’Isis occupò il suo villaggio natìo, Kocho nel Kurdistan iracheno, in un rovente giorno d’estate. I terroristi di Al Baghdadi arrivarono all’alba sui loro fiammanti fuoristrada, radunarono la popolazione nella scuola e sterminarono tutti gli uomini e i ragazzi dai 14 anni in su e le donne sopra i 40. Poi gettarono i loro corpi in una fossa comune. Le donne più giovani e i bambini furono portati a Mosul. Le fanciulle vendute come bestiame, rinchiuse in case bordello e stuprate ogni giorno davanti ai bambini. Fra loro c’era Nadia Murad, riuscita mesi dopo a fuggire.

Su queste violenze ha scritto un libro sconvolgente. Sono cronache del tutto veritiere: quando sono arrivato per la prima volta nel nord Iraq, settembre 2014, ho sentito personalmente le grida di bimbe di dieci anni detenute a Mosul che al telefono raccontavano ai loro parenti le sevizie subite. La comunicazione era parte della strategia del terrore dell’Isis. Serviva a rivendicare la bestialità e chiedere il riscatto. Altri dettagli su stupri, omicidi e torture ai danni delle giovani yazide, minoranza religiosa aborrita dai jihadisti, li ho appresi da Amsha, una diciottenne con un viso che non dimenticherò mai. Mi raccontò indicibili sofferenze tenendo fra le braccia il piccolo Muaid, di dieci mesi, che aveva vissuto tutto assieme a lei. Amsha, dopo essere stata stuprata e privata di cibo e acqua perché si rifiutava di convertirsi all’Islam, era riuscita a fuggire. Finalmente libera, viveva nella miseria e nell’isolamento.

Questo Nobel dunque è anche ad Amsha e a tutte le donne vittime dell’Isis, al loro coraggio, ai loro figli. A una setta religiosa pacifica e sconosciuta, quella degli yazidi, concentrata nel nord dell’Iraq, vittima di innumerevoli persecuzioni nella storia. Questo premio accende un faro sull’ipotesi che l’Isis possa ritornare, magari sotto un’altra sigla. E ci ricorda, in tempi di nazionalismi ed egoismi assortiti, che il fondamentalismo teme più la libertà e la tolleranza di qualsiasi muro o restrizione. (Corrado Formigli)

Anche Amal Clooney sostiene Nadia Murad

Nadia Murad e Amal Clooney Addresses UN High Level Event On Bringing ISIL To Justicepinterest
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«Nadia Murad non è solo mia cliente, è una mia amica», scrive Amal Clooney (nella foto, con Nadia Murad) nella prefazione di L’ultima ragazza, il libro in cui Murad racconta il genocidio perpetrato dall’Isis sul popolo yazida. «Una burocrazia del male» che Amal ha contribuito a denunciare all’Onu, mettendo a disposizione le sue competenze di avvocato umanitario (e anche una certa visibilità). «Spesso il mio lavoro consiste nel dare voce a chi non ce l’ha. Ma Nadia ha rifiutato di essere zittita»: da sopravvissuta è diventata leader e paladina delle donne, e ora Nobel per la pace. Chissà se anche a Oslo andranno insieme. (Serena La Rosa)