«Mi chiamo Katia e ho 26 anni. Sono alta un metro e sessanta e peso 97 chili. Ho una vita normale, una famiglia che mi vuole bene, un ragazzo. Sono fortunata, mi dico. E invece no. Perché l’amore non mi ripara dagli sguardi della gente, non mi impedisce di vedere ogni volta quell’espressione di disgusto: come se essere obesi fosse una colpa, come se mi piacesse quello che vedo quando mi guardo allo specchio. Che poi: se mi piacessi, ci sarebbe qualcosa di male? No. Ma la verità, purtroppo, è un’altra: io odio il mio corpo, e più mi odio, più mangio». Per raccontare la sua storia Katia usa un blog e non è un caso. Perché di tutti i disagi che si possono provare, di tutte le vergogne che ci si carica sulle spalle, il sovrappeso è quello più difficile da condividere. Resta per lo più un fatto intimo e privatissimo anche se, in realtà, intimo e privatissimo proprio non è. Anzi. Secondo l’Oms, nel mondo, oltre due miliardi di adulti sopra i 18 anni sono sovrappeso e più di 650 milioni sono obesi. Lo sono anche oltre 340 milioni di bambini e adolescenti tra i 5 e i 9 anni e 41 milioni di bambini sotto i cinque anni. In inglese c’è una parola che, meglio di tutte le altre, definisce il problema e le sue proporzioni: globesity. Deriva dall’unione di global e obesity, obesità globale appunto, approdo ultimo di un aumento ponderale di massa che, dagli Anni 80 in poi, ha interessato tutti i Paesi, industrializzati e non, e che ha a che fare con il benessere ma anche con la povertà. E sembra inarrestabile. Un dato su tutti: nel 1980 le persone obese e sovrappeso erano 857 milioni.

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Che cosa sia successo lo spiega (in occasione della Giornata mondiale dell’obesità del 10 ottobre) Arianna Banderali, psicoterapeuta e medico specialista in tecniche della nutrizione, presidente dell’Associazione italiana disturbi dell’alimentazione e del peso (Aidap): «Le cause sono molte. Di certo c’entrano i fattori genetici: la familiarità conta, ma non basta a giustificare il fenomeno. La genetica carica le cartucce nella pistola, ma a premere il grilletto è l’ambiente». Le responsabilità, dice, sono tantissime. Sul piano sociale pesano l’aumento e la più facile accessibilità di cibi ad alto indice calorico e le abitudini di vita sempre più sedentarie. Ma i cambiamenti sociali, da soli, non esauriscono la lista dei perché. «Mangiare è un aspetto della vita estremamente complesso, in cui la testa gioca un ruolo fondamentale. E infatti per uscire dall’obesità non basta mettersi a dieta e fare movimento, come non bastano i farmaci o la chirurgia. Intervenire sul corpo non è risolutivo se non si interviene anche sui processi cognitivi. L’obesità è nella lista delle malattie croniche dall’inizio degli anni 2000, ma nella pratica si fatica ancora ad ammetterlo».

«Sbarazzarsi dell’idea che si diventi obesi per voracità e ingordigia non è facile», dice Valentina Martinelli, psichiatra e psicoterapeuta che collabora con l’ambulatorio di chirurgia bariatrica del policlinico San Matteo di Pavia. «E questo si riflette su più piani. Su quello individuale, fa sì che le persone obese si portino dietro uno stigma sociale ancora elevato, anche da parte dei familiari e dello stesso personale medico e infermieristico. Sul piano sociale, implica invece strategie di cura non sempre efficaci perché ancora frammentate e non sempre multidisciplinari. E interventi di politica sanitaria non sempre mirati alla prevenzione. Che un obeso abbia un costo sociale importante però lo si è capito. E infatti per casi più gravi è possibile accedere agli interventi di chirurgia bariatrica anche attraverso il Ssn».

In Italia le persone obese sono 5,5 milioni, centomila in più ogni anno (dati Istat) e pesano sul servizio sanitario per 9 miliardi di euro. Un problema che diventa emergenza quando dagli adulti si passa a bambini e adolescenti: il 42 per cento dei maschi è obeso o in sovrappeso e delle femmine il 38 per cento (dati Oms). In Campania, nella fascia 8-9 anni si arriva al 50 per cento. «L’obesità è più diffusa nel sud d’Europa e, all’interno dei singoli Paesi, nelle aree più svantaggiate. È dunque anche un problema di diseguaglianze sociali. Ma non solo», dice Margherita Caroli, pediatra, past president dello European childhood obesity group. Per uscirne, dice, servono interventi medici, sociali, politici e urbanistici. E prevenzione. «La cura principale nei bambini è muoversi di più e mangiare meno e meglio, evitando bevande dolcificate perché, tra l’altro, il sapore dolce segna la strada e diventa un’abitudine. E poi i bambini andrebbero coperti meno perché al freddo il tessuto adiposo si converte in energia». E poi, spiega, deve intervenire lo Stato. «Tassando il cibo spazzatura. In California, Messico e Ungheria l’hanno fatto e i risultati sono stati sorprendenti». E infine dovremmo cambiare noi. «Non siamo più un Paese di morti di fame eppure non abbiamo ancora smesso di pensare che il bambino grasso sia bello e in salute. Andiamo oltre».