Ci sono molti modi per reagire a un tumore. Queste donne l’hanno vissuto come punto di partenza per la loro rinascita. Superato lo shock e il dolore, hanno ricominciato a vivere con più energia, positività, consapevolezza e ora sono protagoniste del docu-reality della Fondazione Umberto Veronesi dedicato a tutte le donne. Il direttore di Gioia! le ha incontrate sul set e qui racconta le loro storie. Da conoscere, per capire l’importanza di prevenzione e solidarietà.

«C’è chi a 30 anni si sposa, chi fa un figlio, chi trova il lavoro dei sogni. Io ho avuto un cancro. E sono contenta», esordisce così Chiara, occhi d’acquamarina e caschetto sbarazzino, mentre, senza mai perdere di vista il truccatore che sfuma l’ombretto e sceglie il rossetto, risponde asciutta alle prime domande che le faccio davanti allo specchio. Sottintendendo che la malattia non è una bella cosa, ma neanche una sciagura se sai come prenderla, e che nessuno ci provi a pensare «poverina». Chiara è una delle cento Pink Ambassador che partecipano al progetto Pink is Good lanciato nel 2013 dalla Fondazione Umberto Veronesi per finanziare la ricerca scientifica d’eccellenza contro i tumori femminili (seno, utero e ovaio) e promuovere la cultura della prevenzione.

Da allora, ogni anno, in collaborazione con Fidal nell’ambito del progetto Runcard, vengono arruolate nuove testimonial per formare piccole squadre, i Pink is Good Running Team che, attraverso la corsa, condividano un messaggio di forza e positività con tutte le donne colpite dalla malattia. Chiara è venuta da Legnano, Stefania e Dorka da Verona per raccontarci le loro storie e passare una giornata con noi, tra abiti firmati, scarpe dal tacco altissimo e arsenali di make up. Le abbiamo invitate nei nostri studi fotografici per realizzare un vero shooting da modelle, che a giudicare dai risultati sembra le abbia divertite molto.

Dorka, un metro e 80 di bellezza caraibica, ha scelto senza tentennamenti le mise più temerarie: tailleur pantalone di raso verde, mini di pelle, stiletto assassino. Davanti all’obiettivo mostra la sicurezza di una top navigata, e nel pubblico di stylist e assistenti c’è chi la chiama scherzosamente Grace Jones. Stefania è timida, ma si capisce che le piace la moda. Davanti agli stendini dei vestiti ha l’aria rapita di una bambina in un negozio di caramelle. Chiara è pratica e decisa, s’infila un paio di calzoni di lurex e ci abbina un maglione oversize. Quando si mettono in posa insieme per le foto sembra si conoscano da una vita. Invece si frequentano solo da maggio. In tutto sono quattro i gruppi di corsa organizzati dalla Fondazione Umberto Veronesi in altrettante città italiane: Milano, Verona, Torino e Roma, con 25 donne per sede. Ognuna di loro ha storie pazzesche, di buio, di speranza, di rinascita. Che è utile conoscere, per fare prevenzione, per non sentirsi sole.

Dorka, la sensitiva

Tumori femminili storie rinascita Dorkapinterest
Daniele Barraco
Giacca e pantalone “pijama” con inserti di velluto, F.R.S. For Restless Sleepers; dolcevita di lurex, Sandro; sandali Patrizia Pepe.

Anche Dorka, 44 anni, istruttrice di fitness che ha lasciato Santo Domingo per l’Italia, è andata oltre le chemio e la paura. «Per me il tumore è stato una trasformazione, quasi un evento magico. L’ho scoperto per caso, perché il mio corpo si era come inceppato. Mi risultava faticoso fare tutto: uscire, muovermi, respirare. Una cosa stranissima per una persona dinamica come me. Sono andata a fare un controllo, ma l’ecografia dava tutto normale. Non avendo di che preoccuparmi, ho rimosso il pensiero immaginando che fosse la stanchezza di una gara di 20 km sostenuta non molto tempo prima. Ma poi la dottoressa mi richiama, l’ecografia lascia aperti dei dubbi, mi viene suggerito di rifarla. Emerge una cisti, qualcosa da operare. Aprono e scoprono il tumore, che dall’esame istologico risulta maligno. Mi tolgono le tube e un ovaio. L’altro è salvo, ma desta dei sospetti. Fa niente, io parto. Da tempo sogno di fare il cammino di Santiago in solitaria. È il momento, penso. Sono salva, forse domani non lo posso fare più. Infatti, al tredicesimo giorno mio marito mi chiama per dirmi che anche l’altra ovaia è gravemente compromessa, che devo togliere tutto quanto prima. La mia urgenza di partire, ora lo so, era per il terrore di quel verdetto. Sentivo che era la mia ultima occasione. Ma non torno. Devo finire il viaggio. Appena rientro in Italia, mi presento in ospedale, fanno gli esami, il tumore non c’è più. “Sparito”. Il medico mi fissa negli occhi e ripete “È così!”. Chissà quante facce perplesse come la mia ha dovuto affrontare. Ho molta fede, io so che è un miracolo. Comunque decidiamo di operare, asportare tutto per non pensarci più. Dopo la scoperta del secondo tumore e quello che è successo, l’affetto della gente mi ha fatto stare così bene che ho capito che mi piace condividere, parlare, non isolarmi, cosa che prima facevo spesso: stare per conto mio a leggere. Per tutta la malattia non sono mai rimasta sola. Ci sono stati i miei tre angeli custodi: mia sorella, che è il cuscino morbido, quello che ti sostiene e da cui non ti separi mai; mio marito, che è il coraggio, quando ha saputo della malattia ha detto: “Va bene, facciamolo, non ti arrendere”; la mia bambina, che ormai ha 25 anni, è l’amore più grande che ho. Poi ci sono le amiche, le persone che vengono a trovarmi in palestra e mi abbracciano, le mie nuove favolose compagne del Pink is good team che incontro due volte a settimana. È la cosa più bella che mi ha lasciato la malattia: la scoperta degli altri».

Pink is good, Fondazione Veronesipinterest
Pietro Boccia

La guardo, stupenda e fiera dentro il suo abito griffato e le chiedo se non si è sentita tradita da quel corpo atletico quando non la seguiva più, se ha avuto paura di perderlo o vederlo trasformato. «La vita mi ha dato una seconda possibilità e me la voglio godere: con la pancia o senza pancia, con la ciccia o senza ciccia, non ha importanza. Quando ho capito di essere in salvo, tutto mi è sembrato così meraviglioso, la natura fuori dalla mia stanza di ospedale, la presenza dei miei cari, che il corpo è diventato l’ultimo dei miei pensieri, e anzi ringrazio che ancora mi sia rimasto un po’ di fisico. Oggi per me ogni giorno è una festa».

Chiara, la maratoneta

Tumori femminili storie rinascita Chiarapinterest
Daniele Barraco
Pull di lana a righe Dixie; pants di paillettes, Shirtaporter; zeppe di velluto, Chie Mihara.

L’ansia del prima, almeno quella, a Chiara è stata risparmiata. Quell’attimo di caduta a precipizio quando ti dicono che dentro al tuo corpo c’è una cosa che ti mangia e che bisogna intervenire subito. «Mi hanno operato per una cisti ovarica e solo dopo mi hanno spiegato che avevo un tumore all’ovaio. L’hanno scoperto durante l’intervento, partito come una cosa di routine. Mi sono addormentata senza sapere di essere malata, mi sono risvegliata che già non lo ero più. In fondo, dai, mi è andata di lusso. Il brutto è arrivato in seguito. Dai risultati dell’istologico i medici hanno deciso che era opportuno fare tre cicli di chemio preventiva. Tre mesi durissimi. Ho dovuto lasciare temporaneamente il lavoro, che per me è importantissimo, e ho visto scemare le forze piano piano, fino a ridurmi a fare quasi niente. Per fortuna ho avuto vicini la mia famiglia, gli amici, i colleghi, anche il mio capo che mi ha tenuta occupata a distanza, perché non mi sentissi parcheggiata. Senza di loro non sarei riuscita ad affrontare questa faticosa “maratona”, dove ogni tappa intermedia era un traguardo raggiunto per guadagnare la meta. A luglio ho finalmente potuto ricominciare a correre. Sono da sempre una sportiva, l’ultima gara l’avevo fatta 10 giorni prima dell’operazione, quando ho scoperto l’iniziativa della Fondazione Veronesi non mi è parso vero: trasformare la mia passione in una missione precisa, in nome e in favore di tutte le donne. L’emozione più grande è stata partecipare con le ragazze del team alla maratona di New York, un’esperienza immensa, il sogno di una vita. Abbiamo condiviso 8 mesi di allenamento e fatica, nei quali il gruppo si è consolidato creando legami fortissimi. Tuttora ci vediamo spesso, chiacchieriamo, ci diamo il buongiorno e la buonanotte. Sembra paradossale ma sono quasi grata per ciò che mi è successo. Ho 31 anni e forse non potrò avere figli, per ora non li voglio e non ci penso, domani chissà, ma la mia vita è cambiata. Come ci fosse stata una “svolta”. Prima vivevo senza accorgermene, ora so cosa significa avere delle amiche, alzarsi al mattino, correre. Ogni cosa ha un senso. E ogni cosa che c’è non è scontata. La consapevolezza mi fa sentire fortunata».

Stefania, la timida

Tumori femminili storie rinascita Stefaniapinterest
Daniele Bararco
Camicia di seta con fiocco al collo Sandro; pants jogging con profili di frange con borchie Le Streghe; polacchini Gianvito Rossi.

La storia di Stefania è la più travagliata, e lei me la racconta a bassa voce, quasi non volesse disturbare. Si è già sentita troppo di disturbo negli ultimi quattro anni con la sua famiglia, che le ha fatto cerchio attorno senza mollarla mai. Un marito avvocato, due figli adolescenti e una vita che all'improvviso li lascia sospesi in un limbo dal quale non sai se, come e quando uscirai. Dal 2014 al 2018 ha subito 11 interventi, un cancro aggressivo le ha portato via entrambi i seni. «Il primo tumore l’ho sentito crescere letteralmente dentro di me. A una velocità impressionante. A maggio stavo bene, sono andata a fare shopping di intimo e vestiti per un matrimonio. Il mese dopo, tastando il seno ho avvertito una presenza strana, un corpo estraneo che potevo toccare attraverso la stoffa della camicetta. Mi hanno detto che andava tolto subito, perché era una forma cattiva, a decorso rapido. Il secondo l’hanno scoperto mentre facevo la chemio: con tac e pet di controllo hanno visto una formazione di quattro millimetri nell'altro seno. La seconda mastectomia è stata l’inizio del calvario. Sono subentrati un sieroma tardivo e altre complicanze che mi hanno riportata sotto i ferri più volte, compromettendo la funzionalità dell’orecchio destro. Poi ci sono state le chemio, lunghe, spossanti, davvero dure da sopportare, e non solo per me. Ai miei figli, che avevano 15 (Sofia) e 13 anni (Federico), non ho mai nascosto niente. Non sarei stata comunque in grado di proteggerli. Mi hanno visto in tutti i modi possibili, forte, fragile, assente. Le medicine hanno effetti pesanti: hai le allucinazioni, non senti più i sapori, perdi le forze di colpo. L’attimo prima scherzi servendo a tavola e quello dopo collassi sul divano. Le volte che c’erano solo loro dovevano gestire l’emergenza, comportarsi da adulti. L’hanno fatto egregiamente, cercando persino di farmi ridere. Quando ho perso i capelli giravo per casa con una cuffietta e Federico mi prendeva in giro facendosi fotografare con un cappellino uguale al mio. Non ho voluto mettere la parrucca, semmai foulard o turbanti, perché non mi vergognavo della mia condizione. Anche se il mio corpo è cambiato, non mi sono mai vista come un mostro, ma solo come una Stefania diversa dal solito. Questo mi ha salvato dalla depressione. Insieme all’amore di mio marito, che non è mai venuto meno, e dei miei ragazzi. Per quattro anni si sono dimenticati di essere piccoli e si sono dedicati totalmente alla mamma. Ora hanno bisogno di riprendere in mano le loro vite. Federico ha chiesto di fare un anno in America, mentre Sofia, che voleva seguire le orme del padre e iscriversi a giurisprudenza, ha invece optato per medicina. Questa esperienza ha avuto ricadute su tutta la famiglia. Ci ha fatto avvicinare e crescere, ma ha anche dettato le scelte future. Ne sono uscita? Non lo so. Mi sono sentita molto vulnerabile. Ora va meglio, ho vinto una battaglia e resto in stand by con un atteggiamento attivo non remissivo. Ma vivo con la consapevolezza che il cancro può tornare in qualsiasi momento. Se mi dovesse risuccedere, cosa ci posso fare? Il mio corpo si è modificato, mi è venuto il viso tondo, le dita mi fanno male e a volte anche tutto il corpo, ma essere Pink Ambassador mi dà coraggio. Sono sempre stata pigra, ora mi alleno con le ragazze due volte a settimana. Lo faccio per una causa più grande, per la ricerca contro i tumori femminili. Quando corro non sono Stefania, sono tutte le donne».

facebookView full post on Facebook

Protagoniste di un docu-reality in tv

Pink is Good, la mia nuova vita è il docu-reality realizzato da fondazione Umberto Veronesi in onda su La7D ogni lunedì alle 18,20, fino al 19 novembre 2018. Dedicato a tutte le donne, porta sullo schermo le storie positive di chi ha affrontato e superato la malattia. L’obiettivo è dimostrare che “dopo” si può tornare a vivere più forti di prima. Nella puntata in onda lunedì 1° ottobre 2018 (con replica il 15) ci sarà anche il direttore di Gioia!, Maria Elena Viola, sul set insieme alle ambassador Pink intervistate per il servizio in queste pagine.

Pink is good docu-realitypinterest
Pietro Boccia
Una scena del docu-reality Pink is Good, la mia nuova vita, in onda su La7D.

Il progetto Pink is Good è nato nel 2013 per finanziare la ricerca scientifica contro i tumori femminili (seno, utero e ovaie) e per diffondere l’importanza della prevenzione come strumento salvavita. Nelle varie puntate, esperti come la biologa nutrizionista Elena Dogliotti e il divulgatore scientifico Marco Bianchi dimostrano come mettere in pratica ogni giorno i principi della sana alimentazione. E sarà possibile seguire i progressi del Pink is Good Running Team, composto da donne operate di tumore al seno, utero e ovaie che si allenano nella corsa, perché l’attività fisica contribuisce a prevenire e curare il cancro.

Tumori femminili storie rinascitapinterest
Daniele Barraco

Da sinistra: Stefania indossa un dolcevita lurex a righe bicolori, Shirtaporter; jeans “used” con orlo di paillettes, Beatrice B; decollettees “accollate”, Fabio Rusconi. Per Chiara, cardigan lurex al contrario, Mes Demoiselles... Paris; leggings Calzedonia; sandali con listini, Loriblu. Dorka indossa una canotta di velluto, P.A.R.O.S.H.; pants di paillettes, Compagnia Italiana; sandali Patrizia Pepe.