La prima squadra «old» (over 35) di rugby femminile a Milano è nata, con la leggerezza dello scherzo, da un manipolo di «ragazze» intrepide stufe di prender freddo sugli spalti mentre aspettavano che i figli finissero gli allenamenti. «Ho iniziato perché me l'avete chiesto durante una pizzata di fine stagione», confessa alle altre Paola G., 49 anni, due ragazzi di 13 e 9 già militanti tra le fila della storica Amatori Union, oggi cruciale pilone della squadra. «All'inizio non ero convinta, ma dal primo allenamento dubbi e paure sono scomparsi e ora sono felice di condividere uno sport "non molto femminile"».
L'idea è in effetti talmente improbabile che funziona davvero, e bene: le Lady lovers, così si chiamano, a un anno dalla nascita hanno una pagina Facebook a loro nome, un Mister – unico maschio ammesso nel gruppo – e allenamenti tutti i venerdì sera, incastrati con suprema ostinazione nelle agende improbabili di donne lavoratrici che spesso sono anche madri. «È un modo come un altro per dare il buon esempio a mio figlio: mai tirarsi indietro, mai paura. Mai arrendersi e, comunque, provarci», dice Monica, 47 anni, mamma di Andrea, 13.
«Vedevo mio figlio in campo, giocava libero da pensieri», dice Angela, 47 anni, mamma di Luca, 13. «Ho provato un po' d'invidia e ho pensato che mi sarebbe piaciuto proprio tanto, sentirmi come lui».
C'è chi ci arriva perché sognava "di fare un po' di movimento", come Ilaria, 46 anni, bancaria e mamma rugbista: «Ma ora in partita l'adrenalina è a mille, e ho capito che se posso giocare a rugby, posso fare qualunque cosa».
E chi è stata colta di sorpresa: «Ho sempre amato la delicatezza della danza, la bellezza e l'eleganza», dice Cristina, che di mestiere dipinge ceramiche e le altre chiamano "contessa": «Chi l'avrebbe detto che a 47 anni avrei cominciato a rotolarmi nel fango e a divertirmi durante il "terzo tempo"», il dopo-gara conviviale (e spesso etilico) delle squadre di rugby.
L'aspetto filosofico ha il suo peso: «Ho visto mio figlio superare i suoi limiti e ho pensato che magari potevo riuscirci anch'io», spiega Francesca, 44 anni.
«E poi, in un pirotecnico rovesciamento di ruoli, vuoi mettere la soddisfazione del tuo bambino che ti guarda e dice: "Questa cosa la so fare meglio di te, e se ti va te la insegno"», aggiunge Sabrina.
Manuela, 45 anni, un lavoro nella cooperazione sociale e presidente della squadra, riassume in breve: «È terapeutico, fa passare rabbia e frustrazioni, mette di buon umore».
L'autostima deflagra, i muscoli ringraziano; che tu sia minuta o robusta, scattante o piantata non importa, e se è faticoso pazienza – o per fortuna. «Il profumo dell'erba e del fango, la fiducia delle compagne, il cuore in gola. Ogni livido ti dice che sei viva», dice Tiziana, 44 anni.
C'è chi mettendo i piedi in campo ha provato un lampo di inattesa nostalgia. Spiega Crì, 46 anni: «Il primo allenamento di rugby è stato un colpo di fulmine, un mix perfetto tra la gioia della fisicità che conosci nell'infanzia e la meravigliosa sensazione di "andare bene"; perché quel che conta, al di là del risultato, è essere lì con tutta te stessa, e dare il meglio che puoi». Succede che tu vada ad allenarti anche se piove, o si gela: «Si va, perché ti aspettano. Sentirsi attese è bellissimo», riflette Claudia, 45 anni, ora ferma per un infortunio.
Perché se i bambini sanno molto bene come si fa a cadere, gli adulti devono impararlo daccapo e, va detto, non sempre ne escono indenni. «Cadere e rialzarsi sempre, a ogni costo, pure se fa male»: Sabrina sintetizza così l'essenza del rugby, dove ogni gesto nasconde un simbolo. Uno sport selvaggio solo in apparenza: o lo giochi molto bene o puoi farti molto male, specie se non hai più 20 anni. Come è successo anche a me, che a giugno, poco dopo aver scattato le foto di queste pagine, mi sono polverizzata il legamento di un ginocchio. Quando racconto che appena possibile tornerò a giocare mi chiedono se sono pazza. Ma in campo le compagne mi chiamano «scintilla», e questo spiega tante cose, forse tutte.