C’è stato l’autore tv che ha raccontato dettagli scabrosi di gente molto famosa, corna, amanti. Mentre mi stupivo che ne parlasse a me – ero pur sempre una giornalista – mi ha indicata con il mento: «Questa è la stagista?». Poi è venuto il collega che, sedutomi di fronte, attaccava il giornale per cui lavoravo all’epoca. Qualcuno gli ha fatto notare che non era il caso. «Pensavo fosse una stagista», si è giustificato. Ricordo uno dei miei primi colloqui: «Preferiremmo un uomo. Troppe donne insieme non vanno bene». Nel tempo mi sono sentita dire anche: che avevo avuto «culo» a ottenere il posto che poi ho tenuto per sei anni; che avrei dovuto rivelare chi mi raccomandava; che comunque sarei stata una madre migliore lavorando da casa.

Discriminazione femminilepinterest
Illustrazione di Sara Not

Pensare che il sessismo al lavoro sia “solo” una pacca sul sedere nei corridoi è anacronistico. Jessica Bennett lo sa bene: è la prima gender editor del New York Times, una posizione che prima non esisteva, dalla quale racconta il mondo oltre lo sguardo maschile. Ha scritto un saggio, Feminist fight club. Manuale di sopravvivenza in ufficio per le ragazze che lavorano (Salani), per insegnare a difendersi da esemplari di colleghi che chiama il Mestruomostro, per il quale tutte le donne sono “in quei giorni”, oppure il Maspropriatore, che presenta come proprie le tue idee. Spiega Bennett: «Il sessismo odierno è insidioso, disinvolto, politicamente corretto e addirittura amichevole. È un comportamento che s’individua con difficoltà, mai troppo palese, arduo da quantificare e ancor di più da denunciare, che magari non è neppure conscio e intenzionale. Può manifestarsi in capi ben intenzionati, colleghi progressisti, persino femministi». In effetti, nessuno di quelli che mi hanno rivolto le frasi qui sopra si direbbe maschilista. Probabilmente, non lo farebbero nemmeno i pazienti di Cecilia, che in corsia la scambiano per l’infermiera: «Essendo femmina, non posso essere un medico. Un paio di volte è capitato che volessero fosse un mio collega maschio a curarli, invece della “studentessa”».

Sessismo al lavoropinterest
Getty Images

Se le molestie sono sfacciate, riconoscibili, quindi più denunciabili, il sessismo è invece sottile e letale come gas nervino. Bennett lo chiama «morte per mille taglietti»: presi uno per uno, ci si passa sopra; sommati, diventano fatali. Ci impediscono di sfondare il maledetto gender gap, di ottenere quanto ha l’altra metà del cielo: pensiamo solo che, l’anno successivo alla laurea, fatto 100 lo stipendio dei coetanei maschi, le donne guadagnano 94,5. Anche perché, dice Bennett nel suo saggio, rispetto ai maschi tendiamo a chiedere invece di pretendere, occupiamo anche fisicamente meno spazio, davanti a loro ci facciamo istintivamente piccole piccole, abbiamo molte meno probabilità di avviare una trattativa salariale, quando lo facciamo chiediamo meno soldi. Se falliamo, lo prendiamo come un fatto personale, mentre gli uomini danno la colpa alle circostanze.

Donne e lavoro sessismopinterest
Illustrazione di Sara Not

Le discriminazioni fanno male, ma anche paura: alcune persone sentite per questo articolo, alla fine hanno chiesto di non comparire, nemmeno dietro il più stretto anonimato. Il timore che potessero comunque essere riconosciute, che la loro vita d’ufficio potesse peggiorare fino al mobbing, era troppo. «Da ragazza, non hai ancora la percezione di quanto sia ingiusto. All’atteggiamento paternalista, al pat pat sulla testa, ci sei abituata. Purtroppo, non smette neanche quando diventi una “signora”: hai solo un po’ più di strumenti per arginarlo», spiega Giulia Blasi, autrice e attivista che in Italia ha lanciato l’hashtag #quellavoltache in risposta all’americano #MeToo. «Però non bisogna colpevolizzarsi per il maschilismo altrui. Se subisci il paternalismo, ma non sei nella posizione di poterlo far notare, il problema non sei tu: sono loro. Il problema sei tu se inizi a mettere in atto gli stessi meccanismi: preferire gli uomini alle donne, dire che ci lavori meglio, che una donna non è adatta. Insomma, se diventi maschilista».

Perché sì, il sessismo si “attacca” anche alle donne. Per Carlotta quella della sua ex capa era «la tiritera», ripetuta sempre con un tono simpatico, come uno scherzo, «così era anche più subdolo». La prendeva alla lontana, chiedendo da quanto tempo Carlotta fosse fidanzata. Poi si faceva più esplicita: «Quelle che vanno in maternità appena assunte non tornano più. Ti facciamo il contratto, ma non rimanere subito incinta». Una beffa, soprattutto perché la capa aveva figli. Ripeteva quello che si era sentita dire a sua volta? «Forse. Una volta il boss supremo si è lamentato di una collega in maternità a rischio. Per lui i medici erano tutti conniventi». Blasi conferma che molte donne introiettano gli schemi di potere esistenti: «Finiamo per dover usare gli stessi metodi. Così, non cambiano le dinamiche culturali, ma cambia solo chi riesce a spuntarla».

Sessismo donne managerpinterest
Illustrazione di Sara Not

Che fare? Bennett, per esempio, suggerisce alle manager di creare – anche solo alle riunioni – il massimo equilibrio di genere, per incoraggiare le donne a parlare. A chi non ha una posizione di potere, invece, dice di cercare una Vantamica, una collega che la elogi al posto suo e viceversa. Perché il problema non sono le altre donne: è il sistema che mette le une contro le altre. «Nelle multinazionali è più facile andare dalle risorse umane, nelle aziende piccole è un problema quotidiano, più difficile. Non c’è una strategia unica di sopravvivenza, ognuna deve decidere ciò che ritiene più sicuro e più efficace», spiega Blasi. «Se sei brava e porti via te stessa dal posto di lavoro, è il posto di lavoro che ci perde, non tu. Magari sei in un posto bellissimo con gente terribile: se è il tuo sogno, tieni duro, in attesa di condizioni migliori. Se invece è un lavoro che non ti piace, con gente orribile, chi te lo fa fare, amica mia? Vai via».