«Sono Marisa e ho 43 anni. Ho sei figli e ho abortito cinque volte. Mio marito ha 50 anni e negli ultimi venti ha passato almeno sei mesi all’anno in manicomio. Ho praticato un aborto su me stessa, al quinto mese di gravidanza, infilandomi nell’utero un ferro da calza. Sono stata processata. Se l’avvocato mi avesse lasciato parlare al processo, avrei detto a quei signori del tribunale di togliersi la toga: solo una donna che ha sofferto quello che ho sofferto io può giudicarmi. Ogni donna, se lo è davvero, non ha bisogno di parole: perché sa. Sei figli e cinque aborti in meno di vent’anni: mi pare che basti».

La donna che parla in questa testimonianza (raccolta nel libro Sesso amaro pubblicato da Editori Riuniti nel 1977), si chiama Marisa Benetti. Fu operaia, domestica a ore, madre di molti figli e moglie di un marito schizofrenico che la mise incinta 11 volte. Finì processata quando decise che non poteva mettere al mondo il settimo figlio, fece da sé nel peggiore dei modi e rischiò di morire. Era la metà degli anni Settanta e in Italia cominciava a tirare un’aria nuova: Emma Bonino dichiarava in Parlamento che «noi donne non siamo contenitori che si allargano e si stringono ogni volta che capita», parlare di contraccezione non era più proibito, il divorzio era già realtà e anche l’aborto, nascosto come polvere sotto un tappeto di ipocrisia, era diventato un problema da affrontare. Che fosse con un referendum come chiedevano i radicali, o per iniziativa parlamentare (come poi accadde), era chiaro che sarebbe uscito presto dalla clandestinità. Eppure Maria Benetti finì rinviata a giudizio, per ricordare che si può anche cancellare il reato ma la colpa resta.

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La legge 194 fu approvata il 22 maggio 1978. Quarant’anni fa. Emma Bonino rievoca quel giorno in diretta telefonica. «Ero stremata da mesi di ostruzionismo parlamentare con cui tentammo di superare le manovre che la Dc faceva per evitare il referendum. Non ricordo più se festeggiai o no, tanta era la stanchezza che avevo addosso», racconta. «A 40 anni di distanza la 194 avrebbe bisogno di una revisione. È arrivato il momento di mettere un limite all’abuso di obiezione di coscienza da parte dei medici. E poi bisognerebbe favorire una volta per tutte l’uso della RU486, meno invasiva dell’aborto chirurgico. Per il resto è stata una buona legge che ha salvato la vita a molte donne, evitato disgrazie».

Aborto ieri e oggi

Quanto la 194 abbia cambiato la vita delle donne lo dicono i numeri più delle parole. Il Giorno nel 1972 parlava di 3 o 4 milioni gli aborti clandestini l’anno, il Corriere della Sera citava 25.000 donne morte. Le statistiche “ufficiali” parlano di 400.000 casi, che già sarebbero stati abbastanza. In clinica si spendevano tra le 300.000 e le 700.000 lire, in uno studio medico tra 200.000 e 400.000. Le mammane costavano meno, meno ancora costava farlo da sé. Nel 1978, quando la legge fu approvata, Marco Sani, ginecologo e autore di 194. Storie di donne (ed. C’era una volta) era già in reparto. «Fino all’inizio degli Anni 70 il controllo delle nascite era vietato, le pillole anticoncezionali c’erano ma dovevano essere prescritte per i dolori mestruali. E pochi avevano idea di come prevenire una gravidanza». Eppure l’unico desiderio di quelle donne era smettere di restare incinte: un’urgenza superiore alla fede, alla morale, alla paura, alla legge. I primi aborti legali, nel 1978, furono 68.688 in sei mesi. Nel ’79 salirono a 187.752.

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«Per anni in ospedale continuarono ad arrivare donne che, in realtà, avevano fatto da sole. Soltanto nell’82, anno che segna il picco di aborti legali in Italia, 234.593, il percorso di emersione dalla clandestinità può dirsi completato», racconta Sani. Da allora il numero di aborti ha continuato a scendere: gli ultimi dati, del 2016, parlano di 84.926 interruzioni di gravidanza, il 3,1% in meno rispetto al 2015, il 74,7% in meno di quelle dell’82. «La legge ha funzionato, grazie anche al lavoro dei consultori. E le donne hanno preso coscienza della loro sessualità. Ma abortire è ancora un percorso a ostacoli».

Obiezione: due diritti a confronto

Il primo ostacolo all’applicazione di quella che è quasi per tutti una buona legge, è l’obiezione di coscienza che riguarda circa il 71% dei medici, con punte del 97% in Molise e dell’88% in Basilicata. Il che, in molte province rende praticamente impossibile garantire il servizio, e dove è garantito allunga comunque i tempi e le liste di attesa. Mario Piuatti, presidente dell’Aied (Associazione Italiana per l’Educazione Demografica) spiega: «La legge prevede due diritti opposti: quello della donna di abortire e quello del medico di obiettare. Ma l’obiezione di coscienza aveva senso 40 anni fa, quando è stata emanata la legge. Oggi no: se scegli ginecologia e ostetricia devi sapere che si fanno anche gli aborti». Finalmente, e pur tra non poche polemiche, racconta, alcuni ospedali hanno lanciato bandi per non obiettori, pur di garantire il servizio. Ma la soluzione è ancora lontana. «Ad Ascoli, hanno chiesto a noi di mandare dei medici, un giorno alla settimana. In tutto l’ospedale non c’era un ginecologo che non fosse obiettore».

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Manifestanti irlandesi vestite come le ancelle della serie tv The handmaid’s tale, in piazza per sostenere il referendum pro aborto del 25 maggio 2018.

Anche Silvana Agatone, presidente Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194), punta il dito contro l’obiezione di coscienza. «Ogni anno gli ospedali che offrono l’Igv diminuiscono. I non obiettori sono sempre meno e si avviano quasi tutti alla pensione. A Trapani c’era un medico che faceva 80 Igv al mese, due anni fa è andato in pensione e di aborti non se ne sono più fatti. E nemmeno più le interruzioni dopo i 90 giorni per malformazioni fetali. Nel Lazio, per fare un altro esempio, a praticare aborti terapeutici siamo sette, tutte attorno ai 60 anni e tutte a Roma». Una di loro è Elisabetta Canitano, ginecologa dell’Asl Roma 3 e presidente dell’associazione Vita di Donna. «Avevamo una collega che rifiutava di andare in sala operatoria per una gravidanza extrauterina perché c’era il battito. Diceva di dover aspettare un’emorragia. Non solo è difficile abortire, ma si ritardano le cure per ragioni etiche. Se procuri aborto solo se la donna sta per morire, succede poi che una volta quella donna muore davvero». Come Valentina Milluzzo, incinta di 19 settimane che è morta di sepsi il 16 ottobre 2016 a Catania, a cui Canitano ha dedicato lo spettacolo teatrale, Io obietto (il 20 maggio a Roma, alle 19,30, alla Casa internazionale delle donne).

Il ritorno dell’illegalità

Eppure gli aborti sono in calo (anche grazie all'accesso più facile alla contraccezione di emergenza per le maggiorenni), ma non tutti vedono in questo dato soltanto segnali positivi. Anna Pompili, ginecologa romana fondatrice di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto), storce il naso. «Paesi che fanno uso di contraccezione maggiore del nostro hanno un tasso di abortività più alto. Qualcosa non torna». A suo avviso, i numeri che mancano ingrossano le statistiche sotterranee dell’aborto clandestino. «Un tempo l’indice degli aborti illegali erano le donne ricoverate per aborto spontaneo. Ma oggi, anche chi abortisce illegalmente è raro che finisca in ospedale. Ordini farmaci su Internet e se li assumi correttamente, sono sicuri. È più indicativa la sparizione dagli ospedali di certi gruppi etnici, come le donne nigeriane».

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Due infermiere del Cisa (Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto) negli Anni 70.

Pompili non è la sola a pensarla così. «Woman on waves (organizzazione olandese no-profit che aiuta le donne ad abortire dove farlo è illegale, ndr) riceve ogni anno 4-5 mila richieste di aiuto farmacologico dall’Italia, rispetto alle 400 che riceveva all’inizio», spiega Mirella Parachini, ginecologa del San Filippo Neri di Roma nonché storica compagna di Marco Pannella. «Se per abortire ti tocca il consultorio, il medico, l’ospedale, la settimana di ripensamento, le liste di attesa perché i medici sono obiettori che fai? Magari alla fine per non andare troppo in là con i tempi, ti arrangi da sola. La responsabilità non è soltanto degli obiettori: in Italia i problemi sono anche organizzativi, legati ai disservizi della Sanità pubblica».

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Un corteo di cittadini polacchi che manifestano contro la legislazione sull’aborto più restrittiva d’Europa.

Basterebbe, spiega, incentivare l’uso della RU486 – impiegata in Italia nel 15,7% delle Igv a fronte del 57% in Francia. Per questo lei e Pompili, hanno promosso una petizione che chiedeva alla Lorenzin di rendere possibile l’aborto farmacologico anche fuori dagli ospedali. Spiega Pompili: «In America la RU486 è raccomandata a casa, e fino alla decima settimana. Da noi puoi usarla fino a 7 settimane e con tre giorni di ricovero assolutamente inutili e con costi non sostenibili per la Sanità». Un progetto sperimentale per la somministrazione nei consultori doveva partire nel Lazio, per iniziativa di Nicola Zingaretti, ma le minacce di ricorso al Tar l’hanno bloccato. «Manca la volontà politica di risolvere i problemi», dice Filomena Gallo, avvocato e presidente dell’Associazione Luca Coscioni. «Nessuno pensa che l’aborto sia una passeggiata, ma renderle questa strada così difficile non serve a nessuno».

La pillola più "facile"

Molte cose restano da fare, da migliorare, eppure qualcosa si muove. Dal febbraio del 2016 l’accesso alla contraccezione ormonale di emergenza è più semplice. L’Aifa ha eliminato l’obbligo di prescrizione per la “pillola del giorno dopo” e per la pillola dei 5 giorni dopo, per le donne maggiorenni. E questo, secondo le stime del Ministero della Salute sarebbe tra le cause dell’ulteriore diminuzione del numero di aborti. È d’accordo anche Mario Puiatti, presidente dell’Aied: «Se si crede in questo strumento bisogna eliminare l’obbligo anche per le minorenni». La pillola del giorno dopo non è un farmaco “abortivo”, tuttavia secondo il Comitato Nazionale per la Bioetica l’obiezione può essere estesa alla prescrizione della pillola anche in assenza di una gravidanza accertata.