Aprire certe porte è faticoso. Restare seduti è faticoso: fermarsi, ascoltare, raccontare, fidarsi. E poi fare ordine nella vita, nei ricordi, nelle priorità. Chiedere scusa. Perdonarsi. Volersi un po’ di bene. Capire di non essere i soli a sentirsi sbagliati, accettare di essere uno dei tanti che si perdono. Ma soprattutto rimanere sobri 24 ore. E poi altre 24. Un giorno alla volta per settimane, mesi, anni. La vita di un alcolista anonimo funziona così: una parola, un punto, un’altra parola. Passi brevi, frasi brevi. Un filo di fiato e l’orizzonte vicino, ché a guardare troppo in là si perde la direzione. Perché alcolisti si resta, anche quando ci si è lasciati la bottiglia alle spalle, e questa è la prima verità che scopro partecipando a una riunione di A.A., acronimo di Alcolisti anonimi, l’associazione di autoiuto più vecchia (e collaudata: ha recuperato due milioni di alcolisti in oltre centomila gruppi di 170 Paesi) della storia.

La seconda verità è che la dipendenza da alcol è una malattia. Non un vizio, non una debolezza, ma una malattia che non risparmia nessuna categoria umana e ti guasta da dentro, bicchiere dopo bicchiere, nutrendosi di fragilità. Non c’è cura efficace a priori – e questa è la terza verità che scopro – se non ammettere di avere un problema e chiedere aiuto, ma farlo è difficilissimo (non è un caso se, degli oltre 8 milioni e mezzo di italiani che bevono troppo – dati Istat – le persone “in carico”, secondo l’Istituto superiore di sanità sono poco più di 73.000). Uno dei tanti modi, probabilmente il più celebre, di affrontare il problema è appunto rivolgersi ad Alcolisti anonimi (con cui spesso sono gli stessi servizi alcologici a collaborare). Ci si arriva per vie diverse: su consiglio dello psicologo, mandati da un prete, cercando su Internet. Ti presenti a una riunione, se vuoi parli, altrimenti ascolti, come nei film. Non si paga, non ci sono medici, psicologi, terapeuti, protocolli di disintossicazione: solo altri alcolisti in recupero con cui condividere la tua storia e un percorso di 12 passi capaci, stando a chi li pratica, di innescare una rinascita spirituale e, dunque, la guarigione.

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Quanti siano a scegliere questa strada non si sa con esattezza, perché l’associazione anche in ossequio al principio dell’anonimato non ha un registro. Si calcola comunque che, in Italia, siano almeno 6.000: una quindicina per ognuno dei 450 gruppi. Questa sera, però, sono più di venti, seduti attorno a un tavolo in una stanza sul retro di una bella chiesa milanese. Persone di ogni genere, umili e benestanti, giovani e vecchi, scelti a caso dal destino come una volta si pescava dall’elenco telefonico per uno scherzo stupido. Nell’aria, cadenze diverse: il sardo, il toscano, il milanese, voci straniere, parole colte e frasi incerte, mani segnate dal lavoro, sguardi liquidi ancora in cerca di un approdo. Una compagnia improbabile, stretta attorno al dolore condiviso e al mantra che annulla ogni differenza di ceto e cultura («sono un alcolista e oggi ho fatto le mie 24 ore»).

Quasi la metà sono donne anche se, mi spiega Anna Maria che è una “veterana”, potrebbero essere di più (secondo l’Istat, l’alcolismo femminile è in crescita: in Italia le “consumatrici a rischio” sono 2 milioni e mezzo, 1 milione e 800.000 beve troppo tutti i giorni e 700.000 sono binge drinkers). «Per una donna entrare in questa stanza è più difficile. È un problema culturale: che un uomo beva, in un certo senso, è “accettabile”. Per una donna no». Ora è una nonna allegra ed è sobria da 15 anni, ma ha avuto la sua quota di dolore. «Usavo l’alcol come l’aspirina quando si ha la febbre: in dosi minime ma costanti. Da ragazza non avevo una famiglia che mi stesse vicino, ero molto sola. Pensavo di cavarmela riempiendo i miei vuoti così. Poi sono precipitata in qualcosa che non conoscevo. Dicevo: domani smetto, ma duravo mezza giornata. Finché sono finita in ospedale. Per un mese e mezzo non ho bevuto e pensavo di aver risolto il problema. E invece stavo male come prima. Un prete mi ha suggerito di rivolgermi ad Alcolisti anonimi, ed è stata la mia salvezza. Ho capito che l’astinenza è solo l’inizio del recupero: ho accettato i lati negativi e ho imparato a far emergere quelli positivi. E ho scoperto che potevo camminare anche senza stampelle».

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Anche Iris oggi cammina da sola. La sua vita non aveva nulla che non andasse: un figlio grande, un bel lavoro, un buon rapporto con l’ex marito. Eppure. «L’alcol mi serviva a essere meno rigida con me stessa, ma all’inizio ero una tranquillissima bevitrice sociale». La dipendenza, spiega, è arrivata senza che se ne accorgesse. «Con gli aperitivi assieme alle amiche: una volta alla settimana, poi due, ma anche questo non bastava. Ho iniziato a bere da sola al bar, alle sette di sera prima di uscire, giusto un bicchiere. Poi le sette di sera sono diventate le sei, le cinque, le quattro del pomeriggio. Non più con le amiche, ma sola. Apparecchiavo sul tavolino davanti alla tv e aprivo una bottiglia di vino. Il più delle volte, mi svegliavo a metà della notte, senza ricordarmi nulla, con la bottiglia mezza vuota e la cena neanche toccata. La mattina tornavo in me. Finché un’amica dopo una cena mi ha detto: “Eri ubriachissima”. Mi era bastato un bicchiere. Ho iniziato a chiedermi che cosa potessero pensare gli altri e a isolarmi. Così all’ennesima sveglia sul divano con la bottiglia mezza vuota, all’ennesimo invito rifiutato per chiudermi in casa con il mio bicchiere, ho cercato il numero di Alcolisti anonimi che forse ricordavo da qualche film. Solo mia madre mi ha detto: “Brava, ero preoccupata”. Nessuna delle amiche aveva capito la gravità del problema. Dopo tre giorni nel gruppo ho provato a fare le mie 24 ore di astinenza. Poi altre 24, e altre 24. Da allora non ho più bevuto. Ho sostituito la dipendenza dall’alcol con la dipendenza dal gruppo? Forse. Ma oggi sono una persona migliore».

Carla, invece, non ha smesso subito. «Per un anno ho frequentato continuando a bere. Razionalmente capivo di avere un problema, ma di essere un’alcolista non lo ammettevo. Pensavo: prima o poi tocco il fondo e risalgo. E invece quando ho toccato il fondo ho cominciato a scavare. L’alcol ti trasforma: non sei più tu. Pensi di essere interessante e invece sei fastidiosa e molesta. Pensi che gli altri non si accorgano di nulla e invece capiscono che hai bevuto da come parli al telefono. La dipendenza è arrivata dopo aver lasciato mio marito. Con lui mi contenevo, se volevo bere lo facevo prima che tornasse a casa. Restare sola è stato uno sfacelo. Arrivavo a due bottiglie di vino, anche una di superalcolici. Ho trovato A.A. su Internet, in un raro momento di lucidità. Ora ho 38 anni e non bevo da tre. Non ho ancora chiesto scusa a tutte le persone che ho ferito, ma ho cercato di dare a mia madre una figlia nuova. E ho capito che il fondo non esiste: arriva solo quando tu dici basta».

Ragazze che bevono troppo

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Il 9,1% delle donne di età superiore agli 11 anni ha un consumo di alcol definito “a rischio” (dati Iss). Il 40 per cento delle giovani tra i 16 e i 17 anni ha un consumo di alcol definito a rischio. Si tratta della percentuale più elevata tra tutte le fasce di età.

Il metodo dei 12 passi

Nata in America nel 1935, Alcolisti anonimi è l’associazione di autoaiuto più diffusa nel mondo. Storicamente ha dimostrato un’efficacia sconosciuta a molti altri metodi.
Il merito, secondo chi ne fa parte, va al gruppo che permette di vedere negli altri gli stessi disagi e ammettere la dipendenza dall’alcol. E poi al metodo dei 12 passi che partono proprio dall’accettazione di essere un alcolista e portano al riconoscimento della propria impotenza e della necessità di affidarsi a un potere spirituale superiore. La guarigione arriva attraverso la conoscenza dei propri difetti, l’ammissione degli errori commessi e la capacità di chiedere scusa. L’associazione è presente in tutta Italia e risponde al numero verde 800411406.