Li chiamano insegnanti di frontiera. Lavorano nelle scuole dei quartieri più poveri e degradati; hanno a che fare con bambini stranieri che parlano a stento l’italiano; fanno i conti con ragazzi allergici alle regole o con genitori aggressivi, in un periodo in cui insegnare è diventato un lavoro duro e pericoloso. Lo dicono innanzitutto i fatti di cronaca. Un numero impressionante solo negli ultimi due mesi: dall’insegnante di Alessandria legata con lo scotch alla sedia poi presa a calci dagli studenti al vicepreside della media di Foggia preso a pugni dal padre di un alunno che aveva rimproverato, alla professoressa accoltellata al viso da un ragazzo a Santa Maria a Vico, nel casertano; fino al caso paradossale di Giuseppe Falsone, professore alle medie di Casteller di Paese (Treviso), aggredito dai familiari di un suo studente e messo sotto accusa dalla preside con un procedimento disciplinare. Un’indagine condotta su un campione di 1.541 insegnanti da Luisa Vianello, ricercatrice della Sapienza di Roma, e pubblicata lo scorso anno, mostra come il 58 per cento di chi insegna soffra di disturbi da stress. Che si fanno più gravi tra chi è in cattedra da molti anni o ha classi con più di 25 allievi. Dati che valgono per uomini e donne impegnati in ogni ordine di scuole, da quella dell’infanzia alle superiori. E che naturalmente si moltiplicano nel caso degli "insegnanti di frontiera". I quali però non si arrendono e soprattutto non vogliono essere definiti eroi. Perché - e lo dicono le testimonianze che leggerete qui sotto - «non c’è soddisfazione più grande che seminare in un terreno aspro e riuscire raccogliere, almeno un po’».

La testimonianza di Simona Fontana

(32 anni, insegna lettere all’istituto tecnico Torricelli di Milano)

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Alberto Dedè e Bruno Pulici

«La mia scuola è a sud di Milano, e raccoglie molti ragazzi che vivono nelle case popolari dell’area di Rozzano. Insegno in una prima a indirizzo informatico, 30 allievi tutti maschi. E in una seconda e una terza a indirizzo chimico, dove ci sono anche le ragazze. Generalizzare è sbagliato. Parecchi dei miei studenti provengono da famiglie medio borghesi e hanno scelto il tecnico perché appassionati di informatica. Ma altre situazioni sono complicate e difficili. Nelle classi ho anche immigrati di seconda generazione che in casa parlano la lingua di origine e l’italiano lo usano solo a scuola. Ovvio che ci siano problemi di apprendimento. È dura, inutile nasconderlo. Sono ragazzi che hanno un disperato bisogno di attenzione, che non sono abituati a sentirsi dire di no, che non sanno qual è il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Mancano di rispetto, sono polemici, contestano voti e modo di insegnare. Pagano, e paghiamo noi insegnanti, la grande crisi dei genitori. Che delegano completamente il ruolo educativo alla scuola. Lo scorso anno non un solo padre o una sola madre si sono presentati ai colloqui. Abbiamo ragazzi di prima che non hanno mai letto un libro nella loro vita. Stanno perdendo la capacità di immaginare, di usare la fantasia, abituati come sono a vedere tutto su uno schermo. Non sono razzisti. Nei confronti dei compagni stranieri scappa la battuta, ma a Milano sono abituati a stare in classi multietniche. Molto più difficile è il rapporto con i compagni disabili, e questo spesso crea tensioni. A volte mi demoralizzo, anche perché quello dell’insegnante è un lavoro senza riconoscimento sociale. Quando mi chiedono cosa faccio e rispondo che insegno, la prima reazione è: allora non fai niente tutto il giorno! Ma sono fortunata, perché posso contare sulla capacità della preside, sulla sua presenza, sul suo supporto in una scuola che ha un’ottima reputazione. Sono giovane e non intendo arrendermi. Ho voluto diventare insegnante con tutte le mie forze, ho affrontato un percorso difficile, ma è la scelta di chi pensa di poter nel suo piccolo cambiare il mondo. Continuo a considerare questo lavoro un privilegio. Ho davanti i futuri cittadini: se rimarrà loro qualcosa del mio insegnamento avrò centrato il mio obiettivo».

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Alberto Dedè e Bruno Pulici

La testimonianza di Giovanna Trapani

(48 anni, insegnante di lettere nella scuola media Giovanni Falcone, quartiere Zen di Palermo: la sua testimonianza raccoglie anche il pensiero della preside Daniela
Lo Verde che, con lei, ha partecipato a questa intervista).

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Gianni Cipriani

«Li chiamano i ragazzi dello Zen e non è una definizione positiva. Loro sanno di avere questa etichetta. Ma non conoscono altra vita: è un quartiere dove criminalità e povertà sono diffusissime, molti genitori sono in carcere o disoccupati, le famiglie che non possono permettersi di comprare i libri di testo sono la regola. La prima battaglia è quella per la frequenza: quando il tempo è brutto o c’è il papà da andare a trovare in carcere, non si viene a lezione. Dopo le retate, ci sono alunni che spariscono anche per giorni. E poi tornano pieni di angoscia e di rabbia, aggressivi tra loro e con gli insegnanti: portano dentro ciò che accade in famiglia. Non è facile affrontare certe situazioni. Una volta una bambina di seconda media è venuta da noi e ci ha detto che i poliziotti le avevano portato via il papà. Era spaventata e l’abbiamo consolata ma, insieme, abbiamo cercato di spiegare a lei e a tutti che chi ha la divisa non è "il cattivo", è al servizio del cittadino, è un papà anche lui. Cerchiamo di appassionarli alle materie. È dura, ma ci aiutano in tanti a comprare libri e occhiali per chi è miope. Ora stiamo cercando fondi per pagare il dentista per chi ha problemi di denti. Il nostro obiettivo è prima di tutto che questi bambini siano sani, vestiti come si deve e puliti. Quando lo meritano li richiamiamo alle regole, perché il nostro compito è indirizzarli verso un giusto cammino. Abbiamo momenti di sconforto, ma altri di gioia grande. Quando incontriamo ragazzi che ci salutano: "Professoressa, io non vado a rubare!". O quando due nostre studentesse si sono iscritte al liceo. Ecco cosa dà senso al nostro essere insegnanti: la consapevolezza di avere seminato e raccolto un po’. E poi i sorrisi che ritroviamo ogni mattina, e l’impegno e la passione che vediamo in questi bambini quando riusciamo a coinvolgerli».

La testimonianza di Michele Capitani

(46 anni, insegnante di lettere nei Cpia, scuole serali statali gratuite di Civitavecchia).

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Stephanie Gengotti

«Sono docente in una scuola che si rivolge a "utenze svantaggiate", cioè chi, compiuti i 16 anni, non ha ancora la licenza media. Adulti, ma soprattutto giovani stranieri e minorenni con situazioni difficili: moltissimi vivono in case-famiglia. Abbiamo due classi: nella prima, dove sono tutti maschi, ci sono solo stranieri, quest’anno egiziani e albanesi, e minori non accompagnati, cioè migranti arrivati senza neppure un parente. Nell’altra ci sono gli adolescenti italiani (pochissimi, rispetto ai tanti che hanno lasciato la scuola), quelli stranieri che un po’ la nostra lingua la parlano, e gli adulti. Teniamo poi corsi specifici di lingua utili per ottenere la carta di soggiorno. Insegnare è una bella impresa, soprattutto nella classe dei ragazzi stranieri. Non sanno l’italiano e molti non sono proprio motivati. Sono arrivati in Italia con le belle speranze di chi ha 16-17 anni e vorrebbero lavorare subito, ma gli educatori li mandano a scuola perché solo con la licenza media si può, per esempio, seguire corsi in istituti professionali e imparare un lavoro. Alcuni hanno alle spalle un percorso scolastico compiuto nel loro Paese di origine, ma tanti altri sono semianalfabeti o, come gli arabi e i bengalesi, leggono e scrivono in un alfabeto diverso da quello latino. È difficile tenerli nei banchi: c’è chi tenta la fuga, e se uno abbandona i locali della scuola noi dobbiamo chiamare gli educatori e poi le forze dell’ordine, perché si tratta di minorenni. Ma non li tratteniamo a forza, devono capire che la scelta di studiare è la loro. E allontaniamo chi ha atteggiamenti violenti o minacciosi. Come si insegna a questi ragazzi, che spesso nella loro vita hanno già visto di tutto? Cercando di fargli capire che studiare è loro interesse e che, se non impareranno almeno l’italiano, rimarranno isolati. È un lavoro complicato, ma sono contento. Didatticamente qui a volte si deve volare basso, ma il rapporto con gli alunni è speciale. Stanchezza o sconforto non ne provo, un po’ di tormento sì, quando mi chiedo cosa potrei fare di più o di diverso con quei ragazzi su cui proprio non si riesce a fare leva».

Intervista al dirigente scolastico Maurizio Parodi

( 61 anni, di Genova, ha scritto i libri Basta compiti! e Gli adulti sono bambini andati a male, entrambi editi da Sonda).

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«Il problema della scuola sono gli studenti. Non sanno niente e non imparano niente. Se non ci fossero loro la scuola funzionerebbe benissimo». Inizia così la lettera che Maurizio Parodi ha inviato alla nostra mail gioiaposta@hearst.it (più sotto trovate il testo integrale). Una tesi forte, una posizione molto particolare da parte di colui che si definisce un "uomo di scuola". Ci è entrato a sei anni e non ne è più uscito: alunno, maestro, dirigente, ricercatore e padre di uno studente 15enne. La sua pagina Fb Basta compiti! ha 12.000 iscritti e l’omonima petizione su change.org ha raccolto 30.000 firme. Un percorso, il suo, in contraddizione con la lettera che ci ha scritto. L’abbiamo incontrato per capire il perché della sua provocazione.

Pensa davvero che senza gli studenti i problemi della scuola sarebbero risolti?
È una provocazione che nasce dall’indignazione per i mali che affliggono la scuola e che la scuola infligge agli studenti più deboli e indigenti. Abbiamo gravissimi problemi di analfabetismo funzionale (diplomati che sanno a malapena leggere e scrivere); siamo ai vertici delle classifiche europee per incapacità di compensare le disuguaglianze di partenza; abbiamo tassi di abbandono indegni di un Paese civile. La nostra scuola funziona come l’ospedale al contrario di cui parlava don Milani: cura i sani e respinge i malati.

Di chi è la responsabilità?
Di molti. Anche degli insegnanti che, è vero, lavorano in condizioni difficili: pagati poco, in scuole fatiscenti, in classi sovraffollate. Ma, a parità di condizioni disagiate, si può scegliere tra una pedagogia da caserma e un uso terroristico della valutazione, oppure una didattica accogliente, inclusiva, rispettosa dei diritti degli studenti.

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Com’è l’insegnamento oggi?
Quasi esclusivamente cattedratico: rimanda a uno studio mnemonico, inutile e deleterio. Fa spesso ricorso a punizioni ingiuste, inflitte a tutta la classe per colpire i pochi che disturbano, e alle "note" che denunciano il fallimento professionale del docente. Se mio figlio si comporta male a scuola, non puoi chiedere a me di intervenire al posto tuo.

Non la pensano così quei docenti che accusano i genitori di disinteressarsi dei figli che affidano alla scuola.

Vuol dire che non hanno consapevolezza delle proprie responsabilità professionali. Seguendo la loro logica, quando mio figlio si comporta male a casa io dovrei scrivere una nota all’insegnante chiedendogli di provvedere. Torno alla provocazione iniziale: la scuola funzionerebbe meglio se ci fossero studenti e genitori selezionati, come quelli che vantano certi licei.

Selezionano per evitare i ragazzi difficili?
Sì. Peccato che gli studenti difficili siano i più fragili, i più bisognosi, quelli che nella scuola potrebbero trovare la sola opportunità di affrancamento, e che dalla scuola sono invece respinti.

Lei si batte contro i compiti a casa.
Quella dei compiti è una logica discriminatoria: avvantaggia chi ha genitori in grado di sostituirsi agli insegnanti nel fornire un metodo di studio. Persino nelle elementari a tempo pieno si assegnano compiti tutti i giorni, nei weekend, nelle vacanze. Poi ci si stupisce delle diagnosi di depressione infantile.

Cosa salva della scuola di oggi?
I docenti che trattano gli studenti come persone impegnate ad apprendere e non come contenitori tutti uguali nei quali riversare saperi precotti e surgelati; che offrono loro l’opportunità di compiere esperienze motivanti; che non si limitano al voto, ma promuovono "il fare" per interesse e passione.

La sua scuola ideale?
Una palestra dove si esercitano le funzioni più eminenti dell’intelletto dei ragazzi. Dove si sviluppano anche competenze sociali. Dove si cresce insieme e si impara insieme.

La lettera a Gioia! di Maurizio Parodi

«Il problema della scuola sono gli studenti.
Senza gli studenti la scuola funzionerebbe benissimo.
Sono loro che inceppano gli ingranaggi del sistema.
Arrivano a scuola senza sapere niente ed escono dalla scuola senza sapere niente; quelli che hanno letto la celeberrima frase su twitter, sapendo di non sapere, gli altri senza neppure sapere di non sapere (Chissà chi lo sa...).
Non sanno niente e non imparano niente (di utile e men che mai dilettevole).
Non sanno leggere, scrivere, far di conto neppure i diplomati nonostante siano stati a scuola per almeno 13 anni, tanta parte della loro vita, il periodo che dovrebbe essere più bello, ricco, gioioso, trascorso nelle aule anguste, spoglie, disadorne o sordide, sovraffollate, anonime di edifici più o meno squallidi, fatiscenti, in tutto simili a caserme.
Insomma il luogo ideale per deprimere qualsiasi pulsione vitale... eppure continuano a iscriverli, continuano a frequentare.
Vero che riusciamo a perderne tanti (l'Italia eccelle quanto a dispersione) si dice: “perché abbandonano la scuola”, quando è invece chiaro che ne sono “respinti”, ma sono sempre troppi.
Cos'altro si deve fare per dissuaderli?
Perché vengono a scuola?
A che fare?
Ad ascoltare lezioni interminabili, soporifere, ammorbanti: docenti che parlano, parlano, parlano di cose più o meno comprensibili, sensate, cercando di resistere alla noia, al sonno, alla voglia di scappare...
A studiare, cioè a imparare a memoria altre parole che dovranno essere recitate o scritte di fronte al plotone dei docenti (pena la “mortalità scolastica”) - agli studenti più dotati dovrebbe essere assegnata la medaglia alla memoria. Uno sforzo puramente mnemonico, inutile: le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate, a comando (interrogazioni, verifiche...), hanno durata brevissima; non “insegnano”, non lasciano il “segno”, attivano solo la memoria a breve termine (dopo pochi mesi restano solo labili tracce della faticosa applicazione); insomma si tratta di un sapere usa e getta.
Ad aspettare che il tempo passi, il più in fretta possibile per poterne uscire, scontata la “condanna” - quando non si riesca a “evadere l'obbligo scolastico” (sintomatico l'uso del verbo: “evadere”...) : ora dopo ora, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, nell'illusoria attesa di vacanze agognate e negate, di fatto, per l'accanimento morboso (in Italia si rasenta la crudeltà mentale) di insegnanti che tentano di avvilire qualsiasi propensione alla “ricerca” (e quasi sempre ci riescono) infliggendo finanche i “compiti per vacanze”, appunto. Un ossimoro logico, un paradosso pedagogico: i soli a profittare delle vacanze degli studenti sono i docenti, cioè coloro che ne impediscono il godimento agli studenti, violando un loro diritto.
Quale altro deterrente si dovrà mai usare?
Non basta la forzata immobilità cui sono costretti corpi naturalmente bisognosi di moto rigenerante, senza neppure l'ora d'aria cui tradizionalmente hanno diritto i detenuti nelle carceri – lo scopo della scuola è insegnare a stare seduti: ci si deve muovere a comando.
A scuola si va solo con la testa, peraltro malfatta: le mani, il cuore, la pancia non sono ammessi, devono rimanere fuori dall'aula, bisogni fisiologici a parte che si vorrebbero addirittura soddisfare a proprio piacimento. Invece no: alla prima ora non si può andare in bagno perché si è appena arrivati: “non avete il gabinetto a casa?”; la seconda ora non si può perché dopo c'è l'intervallo; la terza ora non si può perché c'è appena stato l'intervallo; la quarta ora non si può perché si sta per uscire: “ce l'avrete pure un cesso di gabinetto... Allora statevene a casa!”.
Oppure vadano solo quelli che già sanno, quelli che hanno famiglie economicamente e culturalmente attrezzate , cioè quelli che della scuola non hanno bisogno, i soli a trarne profitto.
La scuola italiana non funziona più nemmeno come ascensore sociale, è diventata un moltiplicatore di diseguaglianze aggravando il carattere censitario di un'istituzione che si vorrebbe capace di accogliere, integrare, compensare, promuovere, emancipare...
Cos'altro ci si deve inventare per dissuadere gli inadatti (che notoriamente provengono da ambienti degradati, deprivati) visto che tutti, indiscriminatamente, si ostinano ad affollare le aule scolastiche dando luogo al deplorevole fenomeno delle classi pollaio?
Per risollevarne le sorti della scuola non rimane che respingere da subito i predestinati al fallimento, anziché tentare, inutilmente, di istruirli, sottraendo tempo prezioso ai più bravi e meritevoli (che “naturalmente” prosperano nelle famiglie benestanti o agiate).
In tal modo si potrebbero risparmiare (evitandone lo dissipazione) le preziose energie degli insegnanti che grazie al recente aumento delle retribuzioni ci costano anche di più e quindi devono essere impiegati con parsimonia, evitando gli sprechi – ché è un sano principio ecologico.
Abrogando l'obbligo d'istruzione si potrà finalmente restituire la scuola a chi vuole davvero imparare. Se, come auspichiamo, si tratterà di poche decine di migliaia di persone, otterremo risparmi miracolosi della spesa pubblica, coniugando efficienza e meritocrazia.
La democrazia è roba vecchia e costosa, se proprio vogliamo conservarla, lasciamola a chi se la può permettere». (Maurizio Parodi. dirigente scolastico)

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L'insegnante più brava del mondo

«Essere insegnanti non è una scelta, è una vocazione, un destino che si compie: il mio è un modo di intendere la vita che si riflette su come ti proponi agli studenti». Così si racconta Andria Zafirakou, 39 anni, professoressa di arte in uno dei quartieri più multietnici di Londra, vincitrice del Global teacher prize edizione 2018 (globalteacherprize.org), appena assegnato. Il premio, dedicato all’insegnante "migliore al mondo", consiste in 1 milione di dollari da spendere in progetti di istruzione.

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