Il 6 febbraio 1952 «per la prima volta nella storia, una ragazza salì su un albero da principessa e [...] ne ridiscese, il giorno dopo, da regina». Da quella memorabile notte passata sull'albero (o più aristocraticamente: in una camera del Treetops Hotel, il resort costruito sui rami di un fico selvatico in Kenya) e dalla contemporanea morte a Londra di papà re Giorgo VI,  il prossimo 9 settembre, intorno alle 17.30, saranno passati 63 anni, 216 giorni, 16 ore e 24 minuti. Ed Elizabeth Alexandra Mary – ma sui libri di storia i nomi si traducono: qui per sempre si chiamerà Elisabetta II – sarà stata sovrana del Regno Unito e dei reami del Commonwealth un minuto più a lungo della regina Vittoria. Cioè: un minuto più a lungo di tutti.

La principessa Elisabetta di York, per nascita, regina non ci doveva neanche diventare: era solo la figlia – pure femmina – del fratello dell'erede diretto (per capirsi: come finisse sul trono quella svaporata di Beatrice, e Sarah Ferguson regina madre). Poi però Edoardo VIII preferì Wallis Simpson all'impero britannico, e abdicando spostò di lato la linea di successione. Elisabetta venne perciò incoronata, il 2 giugno 1953, con un certo entusiasmo: che fosse la persona giusta per l'incarico era chiaro da sempre.

O almeno dal 1929, quando treenne sulla copertina di Time diede un sostanziale impulso agli articoli per l'infanzia color canarino – mica penserete l'emulazione dei famosi sia una smania moderna. Giudiziosa (prima dell'incoronazione studiò ogni simbolo e rituale, così da potersi commuovere con consapevolezza), frugale (apriva con cura ogni pacchetto, per riciclare la carta da regalo), paladina dei valori della patria (arruolata nel Servizio ausiliario femminile, durante la guerra guidava i camion della Croce rossa). Ma pure con abbastanza carattere da innamorarsi di un principe piuttosto decaduto, Philip di Grecia e Danimarca – detto "l'Unno" – e sposarlo di tigna.

«Quando nostro padre divenne re», raccontava la sorella Margaret al biografo Ben Pimlott, «le chiesi "Questo significa che sarai regina?". "Presumo di sì", mi rispose lei. Da allora non ne abbiamo più parlato». Elisabetta aveva capito subito che la laconicità, insieme a un passo deliberatamente misurato, è caratteristica essenziale dell'autorevolezza. Per il resto, i primi anni di regno le servirono a imparare il mestiere.

A costruire uno stile: il cappello sempre coordinato al cappotto, la borsetta (Launer, con dentro i cinque pound per l'offertorio) mai. A reagire agli imprevisti: il primo fu lo scandalo Profumo, che le insegnò che il pubblico è volubile. A controllare l'immagine di famiglia: nel 1969 la BBC produsse Royal Family, un documentario di 90 minuti in cui Sua Maestà si rivelava persino spiritosa. Ma soprattutto: capace di essere ciò di cui i sudditi avevano bisogno. Le scarpe comode, i modi diretti – «Gesticola come un'italiana», disse uno dei suoi ritrattisti – e quelle sopracciglia lasciate significativamente al naturale non lasciavano dubbi: Elisabetta è una donna che lavora.

Il documentario, dopo essere stato trasmesso pressoché ininterrottamente per mesi, venne ritirato alla fine dell'anno, per paura che tanta esibizione di realtà potesse danneggiare la mistica monarchica, e da allora nessuno l'ha più visto (ce ne sono tre minuti scarsi su YouTube). Il rapporto della regina con la comunicazione visiva, d'altra parte, non è mai stato rilassato. Bambina prodigio alla radio, trovava il video un po' invadente, e francamente dozzinale. Addirittura negò il permesso di trasmettere integralmente la cerimonia di incoronazione, ma ci fu una sollevazione popolare, e lei ne approfittò per dare graziosamente prova del suo talento più spiccato: la rapidità a cambiare idea. Le vendite di televisori, insieme alla sua popolarità, quell'estate ebbero un picco.

Gli anni Settanta, invece, furono sconfortanti. L'economia era in recessione, l'austerity esasperante, a capo dell'opposizione c'era la Thatcher. Come se non bastasse, il matrimonio della principessa Margaret vacillava (quel che si dice: un cesto di lumache) e la stampa non usava più riguardo alcuno per gli affari privati dei potenti: Rupert Murdoch aveva appena inventato i giornali scandalistici. Quello tra Margaret e il conte di Snowdon fu il primo divorzio reale dell'era del tabloid. Per salvare il futuro della monarchia, e contestualmente la reputazione di Carlo, principe del Galles impelagato in una relazione adulterina con la moglie del maggiore Parker Bowles, occorreva il sacrificio di una vergine bionda.

Alla regina, peraltro, Lady Diana Spencer piaceva molto – certo più di Carlo, che è sempre stato una lagna. E poi era il 1981: il tessuto sociale era infiammato, e a giugno un diciassettenne squilibrato le aveva sparato contro sei colpi a salve durante la parata di compleanno (che cade in aprile, ma si festeggia d'estate per ragioni di opportunità meteorologica). C'era disperato bisogno di una favola.

Finì, una decina di anni dopo, notoriamente malissimo – così come già i matrimoni di Anne, la secondogenita, e di Andrew, il duca di York – contribuendo a ribadirle addosso la reputazione di madre anaffettiva, oltre che di suocera impossibile. Elisabetta archiviò quindi il 1992 come annus horribilis – dopo l'incendio del castello di Windsor dovette persino rassegnarsi a pagare le tasse – e cominciò a organizzare la rinascita. Prima consolandosi coi corgi (quella che Philip chiama «la sua cane-terapia») e poi occupandosi della formazione di William, l'erede prediletto. La moglie del quale si è sincerata per tempo non fosse né vergine né bionda, ma opportunamente riservata. E in grado di assicurare alla dinastia un'ipoteca sul futuro.

Il 9 settembre, pertanto, Elisabetta celebra il sorpasso: lavorando come sempre – c'è l'inaugurazione di una linea ferroviaria – e poi in privato nella residenza di Balmoral: il suo posto preferito al mondo, dove può essere quello che ha sempre desiderato: «una signora di campagna, con molti cavalli e cani». Monumentale e rassicurante: Dio salvi la routine.