La verità è bellezza, la bellezza è verità (John Keats). Se circoscrivere l'abilità tennistica di Roger Federer è diventato ormai impossibile, per descrivere la metafisica dei suoi gesti bisogna far ricorso a categorie di pensiero riservate all'arte e alla filosofia. Anzi no, basta guardare le foto al termine dell'ultima prova vinta nell'annus mirabilis 2017, quello della Resurrezione del maestro di Basilea, che dopo una sosta forzata per problemi fisici di sei mesi, sulla soglia dei 36 anni, si è concesso l'impossibile per chiunque altro: Australian open a gennaio, Indian Wells a marzo e Key Biscane a inizio aprile. Le foto, dicevamo. Roger a fine partita, esultante: un albatros a terra, coi lineamenti ordinari, il naso sbilanciato su un sorriso largo ma decisamente imperfetto. E Roger in partita, nel mezzo del gesto atletico: un albatros in volo, bello di una bellezza apollinea, le braccia come ali maestose, la linea degli occhi perpendicolare a quella del naso, la bocca schiusa e perfetta, mai una goccia di sudore: come se nulla, nemmeno l'intensità dello sforzo, potesse scomporre l'armonia irraggiungibile di ogni suo colpo.

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C'è chi ha provato a trovare una teoria del tutto, come lo scrittore americano David Foster Wallace in un memorabile articolo pubblicato dal New York Times – Roger Federer as religious experience – riassunto: certi colpi non si spiegano con le leggi della fisica terrena, sono la Rivelazione di un'Essenza superiore. Roger Federer ha vinto battendo Rafa Nadal per la seconda volta in finale, la terza sulla sua nemesi tennistica dall'inizio di quest'anno. Grazia e impeto, Apollo e Dioniso, una rivalità che, al di là dei numeri, esprimeva un equilibrio inespugnabile e rivelava, secondo alcuni, l'unico vero limite di Roger: troppa bellezza. Una perfezione alla soglia della ieraticità. Fino a ieri.

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Le due divinità si sono riunite, nell'anno di grazia 2017. In questo semidio ormai superiore a un dio, capace di fermarsi dopo una finale a Wimbledon, di per sé un traguardo per molti ma non per tutti e certamente non per lui. Capace di soffrire, finalmente, di allontanarsi dalla Terra come fece Astolfo nell'Orlando Furioso, per raggiungere la sua Luna e trovare tutto ciò che si era perso, o che forse gli era sempre mancato, qui: il suo lato selvaggio, un'incontrollabile voracità dionisiaca. Sublimata in una grazia ancora superiore, in una classe se possibile ancor più cristallina perché sostenuta, nelle retrovie, dalla perdita di ogni inibizione, di ogni posta in palio, di ogni limite imposto dalla decenza e dall'età.

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Non lo conosco personalmente, ma dicono che sia un ragazzo semplice, Roger. Di certo non uno che parlerebbe in terza persona del suo corpo, come invece ha fatto nell'ultima conferenza stampa: «Il mio corpo ha bisogno di riposare e non giocherà altri tornei, sulla terra battuta, al di fuori di Roland Garros». Presunzione? Non credo. Credo invece che Federer abbia capito che il suo corpo e il suo talento trascendono la sua persona fisica, pur essendo un tutt'uno con essa. Sono altro rispetto al ragazzo cresciuto che gioca ancora alla Playstation, che di rado concede interviste, se non a corredo di un servizio moda sulle pagine patinate di certi magazine, e le cui sponsorizzazioni valgono quanto «il pil di un piccolo Paese africano», come scriveva un collega qualche tempo fa. Roger sa di non appartenere più soltanto a se stesso, ma a tutti coloro che hanno e avranno la fortuna di ammirarne le gesta sportive per capire qualcosa di più sul senso della vita. Se non sbaglio, signori, questa si chiama arte.