Il giorno in cui incontro Ben Affleck a San Diego, siamo dentro un'altra epoca, ma né lui né io lo sappiamo. Harvey Weinstein è ancora l'uomo più potente di Hollywood, i segreti restano segreti e nessuno si sente in dovere di render conto della propria moralità o puntare il dito su quella altrui. E infatti parleremo di molte cose, ma mai di molestie sessuali. Anche perché nessuno ha ancora ritirato fuori una vecchia apparizione del 2003 di Affleck a Mtv Total request live, un video in cui l'attore palpeggia in diretta i seni dell'attrice Hilarie Burton. E lui non ha ancora dovuto ammettere la propria colpa e chiedere scusa via Twitter per «essersi comportato in maniera inappropriata».
Sulla terrazza del Petco Park di San Diego, nei giorni del Comic-Con, non c'è nessun presagio di una caduta degli dei imminente. Affleck è solo un attore attorniato dai suoi fan, tutto magnetismo e prestanza fisica, sorridente. Ha ricucito il rapporto con l'ex moglie Jennifer Garner, con la quale ha finalizzato il divorzio ad aprile dopo 11 anni di matrimonio, e da poco ha anche una nuova compagna, la produttrice televisiva Lindsay Shookus.
E poi c'è Batman. Dal 16 novembre 2017 vestirà di nuovo i panni dell'uomo pipistrello sul grande schermo, come protagonista di Justice league. Nel film, recita insieme a Gal Gadot, Jason Momoa, Amy Adams, Amber Heard e Henry Cavill, tutti uniti per salvare la Terra dai cattivi. Ispirato alle strisce DC Comics, Justice league promette di essere il fumettone cinematografico che non delude gli appassionati. Diretto dal maestro del genere Zack Snyder (300, Watchmen), riunisce tutti i supereroi DC: dopo la morte di Superman, Batman convoca i "colleghi", tra cui Flash e Wonder Woman, in una squadra dove i buoni fanno lega contro i cattivi.
Con tutti questi film sui supereroi, il pubblico non inizierà a stancarsi?
Se racconti una buona storia, non importa se i protagonisti sono supereroi o gente normale. L'importante è che siano credibili come esseri umani, con i quali tutti noi possiamo riuscire a identificarci.
E com'è il suo Batman?
Molto più "classico" dei precedenti, vuole salvare la gente, proteggerci tutti. Ha conflitti interiori, e questo lo rende molto umano e vulnerabile. Nel film, siamo un gruppo di eroi con bagagli diversi alle spalle ma, nonostante il nostro ego e la nostra voglia di isolarci, siamo un bel gruppo. E infatti la solidarietà è il tema principale del film.
Cosa rappresenta per lei Batman?
Con lui ho realizzato uno dei miei sogni di bambino. E poi, finché mio figlio Sam crede che sia davvero Batman, non posso certo smettere. Tutti i genitori vogliono essere eroi agli occhi dei loro figli.
È nato in California, ma è cresciuto a Boston, a due case di distanza da Matt Damon. Crede nel destino?
Ho conosciuto Matt non come vicino di casa, ma perché frequentavamo la stessa classe di recitazione a scuola, anche se lui ha due anni più di me. E quindi credo nel destino, sì. Matt ha dato un senso alla mia vita.
Addirittura?
Prima di conoscerlo ero un po' sbandato, passavo molto tempo da solo. La mia situazione famigliare non era delle migliori, mio padre era alcolizzato e faceva fatica a trovare un lavoro, mia madre per compensare lavorava sempre. Io non ero bravo in nulla, facevo sport ma non avevo talento, come studente ero anche peggio, sotto la media. Recitare era la mia valvola di sfogo, c'era sempre qualcuno che mi faceva i complimenti e questo mi faceva sentire bene: finalmente anch'io ero bravo in qualcosa.
Come ha iniziato?
Facendo piccole pubblicità, un'amica di mamma era casting director, mi ha insegnato le regole per una buona audizione. A Matt piaceva l'idea di diventare attore, e quindi abbiamo iniziato ad andare a New York per fare audizioni. Eravamo due ragazzini sul treno quando ancora si poteva fumare, accendevamo una sigaretta dietro l'altra per far credere di essere più grandi. Che stupidi, eppure è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Come quando abbiamo deciso di mollare l'università e trasferirci a Los Angeles per vivere il nostro sogno.
E poi cos'è successo?
A quel tempo stavamo scrivendo Will Hunting, che la mia professoressa universitaria aveva definito spazzatura, sostenendo che una sceneggiatura non è letteratura. Siamo arrivati a Los Angeles senza soldi, io, Matt, mio fratello Casey e un gruppo di amici. Ci siamo ritrovati tutti a vivere a casa del regista Kevin Smith, che è stato fondamentale per il lancio delle nostre carriere. Anni meravigliosi, felici e spensierati, anche se poi ho pagato sulla mia pelle il significato dell'American dream.
In che senso?
Il successo ha un prezzo, devi abbandonare la tua identità privata e assumerne una pubblica. E questo lo paghi: non sei mai solo, nemmeno per un giorno, le regole del gioco cambiano. Con il tempo ho imparato ad accettare i paparazzi e le loro invasioni, ma faccio fatica quando prendono di mira i miei figli. Cerco di proteggerli come posso, spero che non vogliano diventare attori bambini come me.
Come passa il tempo con loro?
Leggiamo molto, sono sempre stato un divoratore di romanzi, ma anche di libri storici e politici, con una passione particolare per il Medio Oriente, che ho studiato quando frequentavo l'università. A tempo perso sono musicista, anche se le mie chitarre hanno ormai le ragnatele. E poi guardiamo tutti i film di animazione, anche quelli europei e giapponesi.
A proposito di politica, ha mai pensato di candidarsi?
No, anche se ho sostenuto Al Gore, John Kerry e Barack Obama, e con Matt ho aiutato Elizabeth Warren a vincere come senatore nel Massachusetts. Mia madre, che è insegnante, è sempre stata una democratica sfegatata. Io non ho lo stomaco per la politica, ho tanti difetti ma sono troppo onesto, e in politica non è una virtù.
Il suo ricordo più caro sul red carpet?
La sera che ho vinto l'Oscar. Dustin Hoffman è venuto a congratularsi con me, dicendomi che aveva lavorato con mio padre: è una cosa che il mio vecchio mi aveva raccontato tante volte, ma fino a quel momento non gli avevo mai creduto.