Julianne Moore non ha paura di niente: almeno, non quando sale su un palcoscenico o ha una cinepresa puntata addosso. È stata un'intellettuale malata di Alzheimer in Still Alice (per cui ha finalmente vinto l'Oscar come miglior attrice, dopo cinque candidature), e una donna sorda in La stanza delle meraviglie. Ha fatto l'attrice di film porno cocainomane (Boogie nights), la madre gay (I ragazzi stanno bene), la moglie di un gay (Lontano dal paradiso) e la moglie etero che finisce a letto con quella che crede essere l'amante del marito (Chloe). Ha recitato un intero monologo senza mutande, stirando, in America oggi. Fra poco, la vedremo in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, con il nuovo film di George Clooney regista, Suburbicon, scritto dai fratelli Coen: una commedia nera ambientata negli anni 50 in cui ha il ruolo di una moglie apparentemente impeccabile, e invece animata da istinti perversi.

Come è stato recitare per Clooney?

Bellissimo! Crea un'atmosfera rilassata e scherzosa, tutti facciamo a gara per compiacerlo. È un uomo generoso, pieno di vita, e si circonda di persone con il suo stesso entusiasmo per il cinema.

Le era sembrato nervoso all'idea di diventare padre?

No, o almeno sul set non l'ha dato a vedere. Ed era meraviglioso con il bambino che ha un ruolo importante nel film, il che mi fa pensare che sarà un ottimo padre.

Lei ha due figli: ha dato a George qualche consiglio?

Gli ho detto che non ha idea di quanto tempo dovrà giocare con i suoi gemelli, quante energie dovrà dedicare a inventarsi modi nuovi per intrattenerli.

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Lei che giochi inventava?

Essendo sempre stata un'avida lettrice, ho letto molte storie. 12 anni fa ho cominciato a scrivere racconti per bambini: la protagonista è una ragazzina con i capelli rossi e le lentiggini, Frecklefaced Strawberry, ovvero «fragola lentigginosa», il soprannome con cui mi chiamavano da piccola. Lo odiavo, ora è la mia rivalsa.

Ha fatto pace con le lentiggini?

Diciamo che ci convivo, anche se continuano a non piacermi granché.

Che tipo di madre è?

Ho desiderato tanto avere figli, e me lo sono goduta, anche se è successo quando ormai pensavo che non avrei avuto una famiglia mia. Avevo dedicato per anni tutta la mia attenzione al lavoro, poi ho incontrato il mio secondo marito (il regista Bart Freundlich, ndr), che ha nove anni meno di me e non vedeva l'ora di diventare padre. Sono stata una chioccia, ma ora che Liv e Caleb hanno 15 e 19 anni il mio compito è allontanarli da me affinché abbiano una vita indipendente.

Le riesce facile?

Macché, è uno strazio. Insegni loro a camminare, a parlare, a nutrirsi, a vestirsi, ad attraversare la strada, sapendo che a un certo punto dovranno cavarsela da soli. E quando lo fanno è bellissimo, ma a te si spezza il cuore.

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Qual è l'insegnamento più prezioso che ha dato loro?

Quello di fare ciò che più piace. Se una cosa ti appassiona, non è mai stupida. Anche se non ne vedi l'utilità immediata, ti porterà al successo.

Come ha deciso di diventare attrice?

Da ragazza non andavo al cinema, guardavo solo la tv. A scuola non eccellevo in niente: non ero sportiva, mai stata una cheerleader. L'unica cosa che mi piaceva era partecipare alle recite scolastiche, mi faceva sentire come il personaggio di uno dei miei amati romanzi. Così, ho recitato di tutto, da Molière alle tragedie greche.

Quando ha scoperto il cinema?

A fine liceo mi hanno portata a vedere un film di Robert Altman, Tre donne, e sono rimasta folgorata. Mi sono detta: ecco il lavoro che voglio fare. Certo, non avrei mai immaginato che, anni dopo, Altman mi avrebbe vista recitare a teatro Zio Vanja e affidato un ruolo in America oggi.

Che cosa ha imparato da lui?

Che tutti gli esseri umani sono perfetti con i loro difetti. Ciò che ci rende amabili è la capacità di sintonizzarci con la nostra natura profonda e avere il coraggio di mostrarla.

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Julianne Moore con Matt Damon in una scena di Suburbicon.

È questo che la fa apparire senza tempo?

Non penso mai al mio aspetto, ma alla luce che gli altri vedono in me quando sono entusiasta di quello che faccio. Conta più di un naso perfetto o di uno stacco di gamba – lo so per certo, sono alta un metro e sessanta.

Completi la frase: la vita è...

Esperienza, rapporti umani, un'altalena fra cose belle e meno belle. Non credo che la vita abbia un senso prestabilito. Per questo la letteratura e il cinema devono imporle una narrazione, o risulterebbe incomprensibile.

Crede in Dio?

Da quando è morta mia madre sono diventata ancora più agnostica.

È vero che non ha paura di niente?

No! Per esempio, mi terrorizza tuffarmi. Ma recitare non mi spaventa. L'unica regola è essere credibile: se interpreto una malata di Alzheimer o una donna sorda dalla nascita, mi informo per sapere come si vive così. Se lo sento io, lo sentirà anche il pubblico.