Nessun giorno senza disegnare qualcosa: lo stilista Antonio Marras ha fatto suo l'insegnamento di Plinio il vecchio: nulla dies sine linea. E l'ha addirittura scelto per il titolo della mostra alla Triennale di Milano, la prima che lo consacra artista a tutto tondo. Una versatilità di interessi e di talenti che è sempre stata il suo marchio di fabbrica e a ben vedere ha parecchie cose in comune con il jazz, il sound più "contaminato" del mondo, nonché la specialità del musicista Paolo Fresu, amico, coetaneo e conterraneo di Marras. Ce n'era abbastanza per farli incontrare, a ragionare di arte, emozioni e creatività. 

instagramView full post on Instagram

P.F. Cosa è per te l'inquietudine?

A.M. È un sentimento necessario per percepire il segno del tempo. Mi viene in mente Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares di Fernando Pessoa, magico poeta portoghese. Dice Antonio Tabucchi: «Il Libro dell'inquietudine parla di noi, delle nostre angosce, della realtà orribile che non vogliamo vedere. Illumina gli angoli oscuri dell'esistenza, quelli che per timore di troppa verità nascondiamo inutilmente al nostro sguardo. Vani sono i tentativi di cercare fuori quello che possiamo reperire solo nel profondo della nostra interiorità».

In realtà io non sono un uomo inquieto. Perché per essere inquieto bisogna fermarsi a pensare. Io non ho tempo. Piuttosto direi che sono irrequieto. Soffro di insofferenza loci. Quando sono a casa vorrei essere altrove, quando sono via non vedo l'ora di tornare a casa. Faccio cose continuamente in maniera quasi simultanea, compulsiva, frenetica e ininterrotta. Tutto non è mai abbastanza.  Le parole felicità, contentezza, soddisfazione, gratificazione e riposo non fanno parte del mio vocabolario. Del resto il sottotitolo della  mia mostra in Triennale, curata da Francesca Alfano Miglietti, recita "vita,diari e appunti di un uomo irrequieto".

P.F. Lo sconfinamento è per te sinonimo di contaminazione, pura necessità creativa o urgenza espressiva?

A.M. Mi piace  esplorare più superfici, captare segni, tradurre ciò che vive nel mio immaginario. Amo  la sperimentazione. Per istinto, mi spingo lungo itinerari inesplorati. Cerco la  contaminazione, la variazione. Solo dalle relazioni tra arti diverse, solo  dall'incrociare, scomporre, fondere  elementi eterogenei possono nascere strade nuove. Gli sconfinamenti fanno parte di me e lasciano il segno nel mio lavoro: innesti, sovrapposizioni, incastri, mescolanze e fusioni.  Le mie  incursioni nell'arte, nella letteratura, nel teatro, nella poesia si fanno sempre più frequenti. Nascono da una  vera necessità, un' esigenza, un bisogno incontrollabile che mi spinge a invadere altri campi.

P.F. Quando conta la qualità della luce nel tuo lavoro?

A.M. La qualità della luce è fondamentale .Non solo nel mio lavoro.La luce cambia le prospettive, cambia la percezione. Trasforma un oggetto brutto in uno bello. Una cosa fredda  diventa calda. La qualità della luce, la sua intensità, la sua direzione cambia il senso, il significato alle cose. Del resto il primo atto compiuto da Dio (dalla Bibbia, Genesi I,3) è stato quello di ordinare che fosse fatta luce: «Fiat lux et lux facta est».

P.F. E la Sardegna cosa ti ha dato e cosa ti da ancora?

A.M. In questo ho un privilegio: essere nato in un'isola e, in particolare, in Sardegna. La Sardegna è un'isola straordinariamente affascinante. Al centro del Mediterraneo, è stata nei secoli teatro di guerre e massacri, violenze e sopraffazioni, ed è stata  anche crocevia di scambi, incontri, confronti con tanti popoli. È una delle aree più stratificate d'Italia e del Mediterraneo e può dirsi che da noi siano  arrivati tutti dai Fenici ai Punici, ai Greci, Bizantini, Arabi, Catalani e così via, e tutti hanno voluto lasciare i loro segni, cercando spesso di oscurare cancellare ridurre a cenere le precedenti tracce. Un'isola fin dall'antichità celebrata ed esaltata, amata e odiata, cercata e rifiutata, offesa, violata, tradita. Io, per giunta sono nato e cresciuto in una città di mare, Alghero, un'antica fortezza a forma di città, che conserva ancora nella lingua, nelle tradizioni e nella cultura il suo passato di città catalana, unica in Sardegna e in Italia. 

«Solo dalle relazioni tra arti diverse, solo dall'incrociare, scomporre, fondere elementi eterogenei, possono nascere strade nuove»

P.F. Dovessi vivere in un altro continente quale sarebbe?

A.M. L'Australia. Perché è un mondo. Un altro mondo. Chatwin descrive l'Australia come un luogo mistico, caotico e terrificante a suo modo. Un ambiente incredibilmente inospitale, capace di consumare, logorare e frustrare qualsivoglia tentativo di colonizzazione, e di preservare al contempo una popolazione indigena dai costumi pressoché incomprensibili ma incredibilmente affascinanti. Io non so perché sono attratto da questo continente. Così lontano, così diverso da me.

P.F. Dovessi tu disegnarne uno o vestirlo che continente sarebbe?

A.M. Beh, senza dubbio sarebbe un arcipelago. Una serie di isole, isolette, isolotti e scogli. Ma sono sparse come briciole sul mare. In modo che un gigante possa attraversare in lungo e in largo tutta la terra senza mai toccare il mare. Come se un signore ardito e spericolato possa fare il giro del mondo raggiungendo a piedi, poi con piccoli tratti a nuoto o in barca, tutti i continenti. Così nessuno deve più fare grandi e pericolose traversate per raggiungere luoghi diversi e tutti possono andare dappertutto. Ovviamente grandi spazi di oceano-mare incontaminato ci sono ancora. Anzi, dirò di più, è piuttosto proibito navigare lì. Così balene, squali e tonni possono vivere indisturbati. Vestirei tutto il nuovissimo continente di un banale camouflage, magari rivisitato nel disegno per adeguarsi ai tempi moderni. In modo che tutto si mimetizzi, niente stoni e tutto sia un po' glamour. 

antonio marras tra le sue operepinterest
Getty Images
Antonio Marras, 55 anni, stilista e artista.

P.F. Perché fai ciò che fai? Te lo chiedi ancora posto che tu te lo sia mai chiesto?

A.M. «E fu a quell'età... Venne la poesia

a cercarmi. Non so, non so da dove uscì, da quale inverno o fiume. Non so come né quando,

no, non erano voci, non erano parole, né silenzio,

ma da una strada mi chiamava,

dai rami della notte,

all'improvviso tra gli altri,

tra fuochi violenti

o mentre rincasavo solo,

era lì senza volto

e mi toccava.

Io non sapevo che cosa dire, la mia bocca non sapeva

chiamare per nome,

i miei occhi erano ciechi, e qualcosa pulsava nella mia anima, febbre o ali perdute,

e mi formai da solo,

decifrando

quella bruciatura,

e scrissi il primo verso vago, vago, senza corpo, pura sciocchezza,

pura saggezza

di colui che nulla sa,

e vidi all'improvviso

il cielo

sgranato

e aperto,

pianeti,

piantagioni palpitanti,

l'ombra trafitta,

crivellata

da frecce, fuoco e fiori

la notte travolgente, l'universo.

E io, minimo essere,

ebbro del grande vuoto costellato,

a somiglianza, a immagine del mistero,

mi sentii parte pura

dell'abisso,

ruotai insieme alle stelle,

il mio cuore si distese nel vento».

Questa è la bellissima descrizione che Neruda fa della sua vocazione. Non ambisco a paragoni, ma solo per spiegare che certe cose le fai perchè senti che devi. Non decidi,esegui.

P.F. Chi era Maria Lai e cosa è stata per te?

A.M. Mariola. L'hai conosciuta anche tu. L'incontro con Maria Lai ha segnato il mio approccio con l'arte e non solo… Per me ha significato una vera e propria svolta. Maria mi è  subito apparsa come una fata, un angelo creativo, una creatura venuta da un altro mondo, un'eterna bambina di 94 anni. È una figura singolare  della ricerca artistica in Italia, tra gli artisti più rappresentativi del Novecento. Ama la sperimentazione, nuove materie, nuovi linguaggi: telai, libri, tele cucite, pani, terrecotte. Le sue opere sono  di rara bellezza: i libri cuciti, le mappe ricamate o gli interventi di tipo concettuale, basati sul coinvolgimento di intere comunità, come Legarsi alla montagna, una performance realizzata a Ulassai nel 1981. Un nastro azzurro univa  tutte le case del piccolo paese, scorrendo diritto laddove c'era odio, carico di pani tradizionali e dolci dove c'era amore, annodato dove c'era stima: in questo modo l'anima nascosta  di una comunità si manifestava visivamente. Con Maria  ho sempre avuto un rapporto speciale, una sintonia di interessi e di idee, un dialogo che si sviluppa attraverso mezzi condivisi: disegno, tessuto, ricamo. 

Mi viene in mente un episodio. Una volta le dissi che avevo copiato un suo disegno. Mi ha risposto: «L'arte è un continuo rubare. Non preoccuparti, io rubo dappertutto. Nel momento in cui la rubi, l'opera diventa tua». Come nel film Il postino, «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi la usa».

P.F. Chi sei tu dentro?

A.M. Mi sento spiritualmente vicino agli Sturmer, alla tensione romantica che dilania e spinge oltre. Spinge a guardarsi dentro e vedersi altro o altri, diversi dalla forma che appare, dalla maschera che ogni giorno indossiamo, dal ruolo che siamo costretti, da noi o dagli altri, a giocare. È un lungo discorso che obbliga a "vederci vivere", a scavare dentro di noi.

Paolo Fresu musicista jazzpinterest
Roberto Cifarelli
Paolo Fresu Nato a Berchidda (Sassari) 55 anni fa, è trombettista e filicornista. Ha ideato il Festival Time in jazz, che si svolge in agosto in varie località della Sardegna. Ha registrato oltre 350  dischi e si esibisce in oltre 200 concerti all\'anno. Ha scritto Musica dentro, edito da Feltrinelli. paolofresu.it  

P.F. Milano, Alghero o Parigi? La tua città ideale?

A.M. Ideale? Non è un termine che mi appartiene. Ci sono città che mi attraggono tantissimo come New York. Perché è unica, viva, con un cielo altissimo che cambia continuamente. E ci sono città che mi annoiano come Londra, troppo vasta! Città che mi entusiasmano come Amsterdam. Che mi sono rimaste nel cuore, Istanbul. Alghero è casa, non la scegli. È come la famiglia: nessuno può parlarne male tranne te! Parigi è irreale. Disegnata per piacere. Troppo bourgeoise.  Milano, la mia seconda casa, mi dà sicurezza, forza e senso di solidità.

P.F. La famiglia, l'amicizia, il team…

A.M. Abito e lavoro in campagna, in una casa in collina, tra ulivi e mare, la mia isola personale. Vivere in un centro piccolo come Alghero, così "fuori dal mondo", ha un valore aggiunto. Nascere  ai confini dell'impero spinge a dialogare, comunicare, vedere, cercare quello che c'è altrove. Un po' come la siepe che impedisce, ostacola, chiude la vista ma nello stesso tempo muove lo sguardo ad andare oltre, apre all'infinito. Dal limite  nasce il desiderio, nasce il sogno  che invita a superare barriere e difficoltà. 

Una grande stanza da lavoro, illuminata dal sole e dai tramonti, affollata di oggetti trovati, raccolti  durante i viaggi, nei mercatini, per strada è il mio studio. Fotografie, quadri, disegni, ceramiche, giocattoli, libri, scaffali di officina, vecchie credenze, cassettiere di drogheria, riciclate, non rimesse a nuovo per non perdere le impronte di chi  le ha possedute. Oggetti abbandonati, perduti, dimenticati che portano con sé esperienze, vite negate mi circondano. Vivo dove lavoro e lavoro dove vivo.

«La mia famiglia è il mio lavoro. Il mio lavoro è la mia famiglia. I miei amici sono i miei complici e miei collaboratori sono i miei amici».

P.F. Una casa fatta di cosa?

A.M. Una casa fatta di luce. Una casa bianca, immacolata, enorme, spaziosa, luminosa e vuota. Completamente vuota. Piena di riverberi, raggi di sole e pulviscolo che libra nell'aria. Tutto è al suo posto. Tutto ordinatissimo e a portata di mano. Tutto è comodo, funzionale e pratico.

«Ho una casa fatta di luce. Bianca, enorme, vuota. Tutto è al suo posto, funzionale e pratico»

P.F. Una casa letteralmente agli antipodi della mia.

A.M. Si sa, gli opposti si/ci attraggono!

La mostra di Marras alla Triennale di Milano

È aperta fino al 21 gennaio 2017, alla Triennale di Milano (triennale.org), la mostra Antonio Marras. Nulla dies sine linea. L'antologica presenta opere d'arte realizzate negli ultimi 20 anni, che raccontano  il percorso visivo di Antonio Marras con installazioni, disegni, schizzi e dipinti.

Tre le parole chiave per leggere l'opera di Antonio Marras: il cinema (il marchio con cui debuttò, nel 1987, si chiamava Piano piano dolce Carlotta, dal film di Robert Aldrich); il viaggio come nutrimento dell'anima e le "eroine tragiche": come le artiste Maria Lai e Carol Rama, o come Adele H., protagonista del film di Truffaut (antoniomarras.com).