La profezia si è avverata. Mentre i primi ospiti arrivavano sul tappeto rosso dei Golden globes 2018, giudiziosamente vestiti di nero e/o con appuntata sul bavero la spilletta di Time's up - il manifesto dell'era post Weinstein: una rete di supporto e solidarietà contro le molestie e la discriminazione di genere in ogni ambito, creata da 300 professioniste dell'industria dell'intrattenimento - Margaret Lyons, la critica televisiva del New York Times, scriveva: "Presto un altro potente di Hollywood verrà accusato di qualche mostruosità, e la sua foto più recente sarà quella di questa sera, con la sua bella spilletta". Eccolo qua. Quando James Franco è salito sul palco per ritirare il premio come protagonista di The disaster artist - e ringraziare i suoi amici: tutti maschi - nessuno è rimasto particolarmente sorpreso dalla reazione furibonda a seguire.

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James Franco, 39 anni, ha ricevuto un Golden globe 2018 come miglior attore in un film commedia o musicale.

La prima a parlare è stata Ally Sheedy, attrice promettente negli Anni 80: «James Franco ha appena vinto. Non chiedetemi mai perché ho lasciato il mondo dello spettacolo», ha scritto su Twitter, insieme all'immancabile#metoo. Poi però ha cancellato tutto. Un'altra attrice, Violet Paley, ha ricordato a James Franco di "quella volta che in macchina mi hai tirato la testa contro il tuo pene nudo", e di quell'altra in cui ci aveva provato con un'amica sua diciassettenne: proprio come nel 2014, quando per qualche giorno fecero scandalo i messaggi con cui tentava di abbordare una minorenne.

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James Franco in una scena di The disaster artist, da lui diretto e interpretato.

Franco al Late show with Stephen Colbert ha confermato il suo sostegno alle minoranze maltrattate - applausi del pubblico - e prevedibilmente respinto le denunce su Twitter, ma si è detto senz'altro pronto ad assumersi le sue responsabilità. Non mi è difficile immaginare che sia un formidabile bugiardo ma di fatto, al di là della sgradevolezza - quella sì, oltre ogni ragionevole dubbio - fin qui non c'è nessuna accusa circostanziata, e una storia già nota: vecchia di tre anni. Eppure il New York Times ha immediatamente annullato l'evento cui Franco avrebbe dovuto partecipare dopo il Colbert, e non vedo come la sua campagna per l'Oscar possa proseguire inalterata. È una specie di schizofrenia ipocrita: le certezze sulla condotta disturbante di James Franco, prima e dopo la notte dei Golden globes, erano esattamente le stesse, ma nessuno si è sognato di contestarne la candidatura fino alle insinuazioni provviste di regolamentare hashtag.

Meglio tardi che mai: è una posizione legittima. Ma non è detto sia la più lungimirante. In un articolo uscito sul New York Times - abbiate pazienza: i giornali buoni ne contengono moltitudini - qualche giorno prima dei Globes, Daphne Merkin rifletteva sulle reazioni meno presentabili alla valanga incontrollata di #metoo. Quelle che rimangono private, per via "dell'intimidazione sociale che rappresenta il rovescio della medaglia nella cultura del politicamente corretto in cui viviamo". Il timore è che le donne stiano ancora scegliendo per se stesse il ruolo delle vittime inermi - incapaci di difendersi da sole - e che la confusione tra accusa e inquisizione, molestia e maleducazione, possa creare le condizioni perfette per restaurare un codice etico asettico e bacchettone. La negazione di ogni responsabilità individuale è il contrario esatto della libertà. Per questo è importante lavorare sulla cultura, più che sui pettegolezzi. L'approccio fattuale di Time's up è una risorsa concreta, e tutte le grandi dive vestite di nero sono un simbolo: «Una netta linea nera che separa il prima dal dopo», ha detto Meryl Streep.

Attrici in neropinterest
Donne in nero per protesta ai Golden globes 2018: dall\'alto in senso orario, l\'attivista Tarana Burke, Michelle Williams, America Ferrera, Jessica Chastain, Amy Poehle, Meryl Streep, Kerry Washington, le attiviste Saru Jayaraman e Ai-jen Poo, Natalie Portman.

Il discorso di Oprah è una visione, e la soave noncuranza con cui Natalie Portman ha messo a disagio i cinque registi candidati - inserendo nella trita formula di presentazione la qualifica svilente: «Tutti maschi» - è un essenziale esercizio d'insubordinazione. Ma il talento specifico di Hollywood è di interpretare la realtà in tempo per metterla in scena quando diventa attuale, e ogni premio ha confermato l'urgenza di una rivoluzione: Big little lies, The handmaid's tale, Lady Bird, persino La fantastica signora Maisel. Ma soprattutto Tre manifesti a Ebbing, Missouri: la storia di una madre (Frances McDormand, migliore attrice, a fianco di Woody Harrelson nel ruolo del poliziotto) che vuole vendicare la morte della figlia - "stuprata mentre stava morendo" - in cui il torto e la ragione, la consolazione e la colpa, si mischiano e sovrappongono: come succede. Niente è mai semplice, ma quello squarcio di umana decenza, nell'ultima scena, rimane l'unico lieto fine possibile.