Lo scorso novembre – non appena la notizia che Hillary Clinton aveva perso è diventata ufficiale – numerosi elettori hanno postato sui social una foto di Michelle Obama con lo slogan «2020 elections: Michelle for president». Questo dimostra quanta stima e popolarità l'ex first lady goda tra gli americani. Anche se l'interessata ha dichiarato di non avere intenzione di candidarsi, niente e nessuno può impedirci di continuare a sognare. Perché la maggioranza di noi è innamorata di Michelle Obama. Intendiamoci, non si è trattato di un colpo di fulmine. All'inizio del primo mandato, la relativa mancanza di esperienza del marito suscitava non poca preoccupazione. Molte donne erano deluse e arrabbiate per il fatto che – al termine di una campagna doppiamente storica, in cui l'America era chiamata a scegliere tra il primo candidato alla presidenza nero e il primo candidato donna – un maschio avesse avuto la meglio ancora una volta. Negli ambienti più a destra, a dispetto della sua prestigiosa carriera di avvocato, si sussurrava che Michelle fosse una angry black woman, un'agitatrice animata dall'odio razziale e dal desiderio di rivalsa.

A conquistarci è stato il suo atteggiamento pragmatico: dalla scelta di portare la madre alla Casa Bianca per dare una mano nella gestione della famiglia, all'impegno contro l'obesità infantile. Fino alla decisione – audace e controcorrente in un Paese come l'America, dove l'industria agroalimentare è un colosso dominato da logiche ciniche e corrotte – di farsi paladina dell'agricoltura biologica e a chilometro zero, nel nome del diritto di tutti i cittadini (e non solo di una minoranza di privilegiati) a un'alimentazione sana e di qualità. In Michelle Obama abbiamo avuto una first lady capace di coniugare l'eleganza di Jackie O. e l'autorevolezza di Hillary Clinton. Ma la cosa più straordinaria è che Michelle è stata la prima first lady nera e in otto anni trascorsi alla Casa Bianca non ha mai dato l'impressione di esser disposta a minimizzare o svilire il proprio essere black. Nel suo discorso all'ultima convention dei democratici ha sottolineato: «Ogni mattina mi sveglio in una casa costruita dagli schiavi. E osservo le mie figlie, due splendide ragazze di colore, giocare con il loro cane sul prato della Casa Bianca».

Abbiamo amato Michelle per il suo spessore umano e intellettuale, ma anche per la sua leggerezza. L'abbiamo amata come abile ballerina. La abbiamo amata per il modo in cui il marito, il presidente degli Stati Uniti d'America, rendeva pubblicamente omaggio alla sua bellezza e al suo cervello. Abbiamo amato le sue braccia forti e scolpite, il suo gusto per la moda, la sua propensione per gli stilisti giovani, da Jason Wu a Narciso Rodriguez a Tracy Reece. Abbiamo amato le sue mises informali, i capi classici e sportivi acquistati da J. Crew e subito andati a ruba in tutta America. In occasione dell'ultima cena di Stato, con Matteo Renzi e moglie, Michelle era fasciata da un abito Versace rosa metallizzato: era bellissima, forte e pronta a dare battaglia. La scelta di indossare quel particolare vestito è un gesto dalle sottili e astute implicazioni politiche. In quanto tale, ci ricorda dolorosamente tutto ciò che abbiamo perso e acuisce il nostro terrore per ciò che ci aspetta: un buffone placcato in oro che si circonda di donne innocue, compiacenti e decorative e non perde occasione di svilire quelle che sfuggono al suo controllo.

* Wednesday Martin è scrittrice e antrolopologa, scrive per The New York Times, The Atlantic e Psychology Today. In Italia ha pubblicato Nella giungla di Park avenue (Bookme DeAgostini)