«Questo film rievoca la fine di Stefano Cucchi, dal suo arresto alla morte, nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. In tutto sei giorni e sette notti». Seduta al tavolo della sua cucina, Jasmine Trinca si stropiccia gli occhi spalmandoli di kajal e ripercorre la storia di Sulla mia pelle, il film di Alessio Cremonini sulla tragica morte di Stefano Cucchi, il 22 ottobre 2009, scelto per aprire la sezione Orizzonti della 75esima Mostra del cinema di Venezia, in cui indossa i panni della sorella di Stefano, Ilaria. Nella stanza accanto, in quello che nella geografia affettiva della casa in cui abita da sempre è il regno del gatto mammone, la figlia Elsa legge Topolino. Oltre la cucina invece, dove risuona forte il ticchettio di un orologio a muro, ci viveva un tempo la signora Iole, la vicina «morta a cento anni», presenza benevola che trasuda dai muri. Ma di questo diremo poi.

«Sulla mia pelle», torna a raccontare Jasmine giocando nervosamente con una matita, «è anche la radiografia di una famiglia spezzata. Mi è stato difficilissimo dare corpo a Ilaria, che ancora lotta per ottenere verità e giustizia: la sua immagine pubblica la conosco bene, il suo impegno risuona per tutti coloro che hanno seguito la sua battaglia. Ma, a fronte di quello, c’è l’aspetto privato, che mi sono imposta di evocare con grande rispetto per il suo sacrificio».

Dopo l’incetta di premi per Fortunata, a 37 anni, l’attrice romana scoperta da Nanni Moretti in La stanza del figlio ha abbracciato anima e corpo il progetto di questo film, distribuito in tutto il mondo al cinema e su Netflix, dal 12 settembre 2018, in cui Cucchi è uno straordinario Alessandro Borghi. Intorno alle cause della sua morte si sono susseguite svariate indagini, perizie e ben due processi: il secondo, in cui sono imputati per omicidio preterintenzionale i tre carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi con l’accusa di spaccio, è ancora in corso.

Il suo coinvolgimento sembra andare ben oltre le cautele sull’interpretazione.

Cerco sempre progetti che in qualche modo mi corrispondano. Col nostro mestiere abbiamo la possibilità − e la responsabilità − di costruire un immaginario, restituire la complessità della realtà, per questo mi appassionano ruoli che non siano la semplice apposizione di una figura maschile, ma donne reali: la mia è una piccola partecipazione che però in un film così asciutto, forte, toccante, ha anche il sapore di una testimonianza.

Si è confrontata con la vera Ilaria?

L’ho incontrata diverse volte. Spesso ho partecipato ai memorial per Stefano Cucchi, la loro vicenda mi suscita un’acuta emozione: la sua dolorosa esposizione – penso a lei ma anche alla mamma di Federico Aldrovandi, morto in circostanze simili – è la chiave per tenere alta l’attenzione sulla verità. La loro è una forma di generosità verso tutti. Ho un profondo rispetto per quel lutto privato costretto a diventare pubblico, è una cosa straziante non poter vivere nel riserbo un dolore del genere. Ma con Ilaria è successa una cosa strana.

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Andrea Gandini
In questa foto del servizio della cover story di Gioia!, Jasmine Trinca indossa una camicia jacquard, longuette di nappa, tutto Miu Miu.

Quale?

Ci siamo incrociate spesso, ma non abbiamo mai parlato davvero. L’ho sentita raccontare di Stefano, ho letto, anche pubblicamente, il suo libro (Vorrei dirti che non eri solo, Rizzoli): passaggi difficili in cui descrive l’agonia del fratello, o le condizioni in cui lo hanno ritrovato. A un certo punto, mi sono detta che mi sarebbe piaciuto avere con lei un momento alla pari, in cui anche Ilaria potesse condividere aspetti della mia vita, qualcosa di intimo, come in un patto. Però poi non ci siamo mai incontrate.

Perché?

Penso per una forma di pudore reciproco, ma anche di fiducia. Una fiducia che lei e tutta la famiglia hanno sempre avuto nei confronti del regista e degli attori, pur sapendo che avremmo messo in scena una cosa complicata, rappresentato un grande dolore ma anche un amore molto privato

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Andrea Gandini
Jasmine Trinca in abito di jersey doppio e tulle con scollatura a V, Prada.

Si è chiesta cosa avrebbe fatto nei panni di Ilaria Cucchi?

Mi sembra impensabile una reazione diversa dalla sua, è un esempio talmente potente. Ecco perché ho pensato di leggere Antigone a uno dei memorial per Stefano. Senza voler fare la splendida, ho realizzato che la sua storia è davvero quella della tragedia greca: una donna che si batte contro la legge dello Stato per un fratello che aspetta una sepoltura degna. Lì c’è tutto: la libertà, la volontà, la forza che – sarò fissata – ritrovo sempre nel femminile. Penso che in fondo questa donna non abbia ancora chiuso i conti con il lutto, l’unico vero augurio che mi sento di farle è che possa a un certo punto riposarsi e concedersi il dolore.

Il film si basa su 15.000 pagine di atti processuali, che raccontano come la fine di Stefano sia una strada costellata di negligenze, omissioni, omertà.

Su questa cosa della negligenza vorrei soffermarmi: è esattamente quel tipo di attenzione che a lui è mancata, perché Stefano si portava addosso il pregiudizio d’essere un detenuto, un tossico, un disperato. Penso ai medici, che hanno fatto un giuramento, ma anche a tutti quelli coinvolti nel processo burocratico. Per fortuna ci sono persone che piano piano si sottraggono all’omertà. Le cose cambiano quando la gente comincia ad avere la possibilità di parlare. È un po’ quello che è successo per lo scandalo Weinstein.

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Jasmine Trinca in abito di jersey doppio e organza, Prada.

In quell’occasione non ha esitato a schierarsi al fianco delle donne di Dissenso comune.

Per me era un gesto imprescindibile: la parola dell’attrice, nostro malgrado, è più ascoltata, non per autorevolezza ma per visibilità; è molto importante che, se qualcuna di noi ha la possibilità di parlare, lo faccia a nome di tutte. Se per molte donne è ancora difficile esporsi, la colpa non è certo loro, ma di una cultura e di un sistema che non le sostengono nel momento in cui parlano. Abbiamo messo la nostra faccia per affermare un principio: nessuno può permettersi di mettere in discussione la parola di una donna che denuncia un sopruso, e neanche il tempo in cui questa parola si forma, o viene elaborata.

Eppure continua a succedere.

Il discorso sul genere e sull’equità dei diritti, che dovrebbe stare a cuore a tutti, è l’unico che ancora divide e spaventa moltissimo.

Anche in un’istituzione illuminata come la Biennale cinema di Venezia, dove quest’anno c’è solo una regista in concorso.

È un’occasione persa, non una sconfitta. A Venezia, anche quest’anno, continueremo a proporre questa carta, la stessa che è stata sottoscritta a Cannes e lo sarà a Toronto. Tutti i festival si stanno allineando: è un impegno a corrispondere una serie di dati sulla trasparenza dei comitati di selezione, o su come sono formate le giurie, con l’obiettivo di raggiungere una parità di rappresentanza.

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Jasmine Trinca, al centro, insieme ad altre attrici e cineaste alla marcia delle donne sul red carpet della scorsa edizione del Festival di Cannes.

È sempre stata così coraggiosa?

Ho avuto l’esempio di mia madre, tra l’altro da me molto contestata. Lei non possedeva niente, se non il senso della dignità. Avrebbe potuto fare altre cose per avere una vita più facile, ma non era nella sua scala del possibile. Accettava invece di lavorare moltissimo, anche lavori umili, purché le permettessero di crescere una figlia da sola. Ho imparato da lei ad appartenere solo a me stessa. Non c’è nulla che mi possa comprare, nulla.

Vive ancora nella casa in cui è cresciuta.

Il mio amico Valerio Mastandrea, che tra l’altro è mio vicino, dice che sembra la casa del rigattiere, però ha una storia, ci sono tutte le mie vite passate. In questa parte della casa (stende le braccia verso il soggiorno davanti a sé, ndr) ci abitava la signora Iole, che è morta vecchissima. Quando ho tolto la carta da parati, sotto c’erano tanti strati di pittura, era come se lei mi stesse ancora parlando. È una semplice parete di una casa popolare, ma dietro c’era la sua storia, gli strati a colori della sua vita.

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Andrea Gandini
Jasmine Trinca: camicia jacquard, longuette di nappa e booties di raso e nappa, tutto Miu Miu.

Parla coi fantasmi, non ha proprio nessuna paura?

Convivo con le stesse paure che avevo da piccola: primo tra tutti, il gatto mammone.

Chi?

(Mi mostra la parete dietro di sé, ndr). Vede? Questa qui invece è la parte di casa in cui sono cresciuta, io dormivo là dietro, su un soppalco dove ora dorme Elsa. Di notte, me ne stavo lì a fissare il buio. Mia mamma, forse per garantirsi un po’ di privacy in cucina, mi diceva: «Guarda che nel buio ci sta il gatto mammone!». Me lo immaginavo come una bestia feroce: in un libro di Buzzati, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, era proprio descritto come una fiera. Poi ho paura dell’altezza. E naturalmente del ciclone...

Il ciclone?

Ha presente il tornado del mago di Oz? Mi terrorizzava l’idea di Dorothy che viene presa nell’occhio di un ciclone, strappata alla sua vita e catapultata in un mondo fantastico. Che poi, in qualche modo, è la metafora della mia esistenza: a un certo punto sono stata inghiottita da un turbine che mi ha portato in gita nello strabiliante mondo del cinema. Però io non ho ucciso nessuna strega: le streghe mi stanno simpatiche.

(styling Camilla Rolla).