«Questa è una domanda del cazzo». La Vanoni che sognavo d’incontrare appare a metà intervista, e per lo sdegno passa persino a darmi del tu. Mi piacciono molto anche le altre Vanoni: quella che era entrata in casa vestita da marinaretto (maglia a righe bianca e blu, pantaloni bianchi, caviglie da ventenne) e s’era precipitata a fare le moine al cane, dicendogli con la vocetta che si usa per i neonati «Ora questa signora scriverà: La Vanoni è scema, è invecchiata e si è rincoglionita»; e quella, favolosa, che a fine intervista mi spiegherà che, se non voglio ingrassare, devo bere gin tonic invece dello champagne; ma questa Vanoni qui, la mia preferita, è la stessa che redarguisce in diretta le conduttrici che presentano ogni artista come «grandissimo», la stessa che guarda schifata il premio che le consegnano a Sanremo. E che non risponde alle domande: tiene il tema, butta via l’angolazione che avevi studiato, il dettaglio di cui ti sembrava intelligente chiederle conto, e ti racconta qualcosa di più interessante. Ogni non-risposta della Vanoni è una lezione circa quel che avresti dovuto domandarle.
«Sono stufa di parlarne. L’ultima volta ho detto: non mi chiedete più di Paoli, non ne posso più».

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Ornella Vanoni negli anni 60.

A lei chiedono spesso delle sue storie d’amore, non si ha il timore che poi s’offenda sentendosi non abbastanza valorizzata come donna.

«Dal ’68 in poi, facciamo ’70, perché in Italia è arrivata in ritardo, c’è stata non la libertà sessuale, ma la libertà di parola. Le donne hanno iniziato a parlare e questo ha distrutto gli uomini. Adesso dicono tutti che le donne sono straordinarie, mah: alcune donne sono straordinarie, alcune no».

Lei però era emancipata ben prima del ’68: questione di carattere?

«No, questione d’incontri: io ho incontrato Strehler. Mi sono iscritta alla scuola del Piccolo, lui si è innamorato di me, una ragazza di 23 anni che aveva letto un libro sì e no. Io la parola “genio” la uso molto poco, ma lui era veramente un genio. Io stavo sempre zitta vicino a lui, ho iniziato a parlare dopo».

Stava zitta per timidezza?

«Perché dovevo imparare. C’era poco da parlare. Poi sì, ero timidissima, e assorbivo: sono una spugna. Il mio mito era la Borboni, che come me odiava stare chiusa in camerino».

Claustrofobia?

«No! Io non ho queste cose qui! Non ho paura dell’aereo della macchina dei cani di niente. Non mi piace il camerino, mi piace stare in mezzo alla gente. Strehler lo seguivo in tutte le tournée in Europa. Poi ci siamo lasciati, è stata dura, più per lui che per me. Lui mi disse “Sarà dura navigare da sola”, ma ce l’ho fatta, e questo a lui non è piaciuto».

L’uomo lasciato ha sempre un problema di orgoglio.

«Ma perché orgoglio, la sofferenza non si calcola più? Lui ha sofferto veramente tanto, voleva tornare con me, mi ha fatto anche un po’ di stalkeraggio. Ma io non volevo tornare con lui, per ragioni che non voglio dire».

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Ornella Vanoni con Giorgio Albertazzi negli anni 80.

Ho letto molte sue interviste in cui evita questo dettaglio, lasciandoci tutti curiosissimi.

«L’ho scritto nella mia biografia, se uno è interessato alla vita della Vanoni va a leggerla, ma dirlo a un giornale non mi piace, sembra un pettegolezzo. Aveva dei vizi che non mi piacevano».

Sia con Giorgio Strehler che con Gino Paoli lei è stata tre o quattr’anni, sono passati decenni e ancora gliene chiediamo conto.

«Se sei stata la donna di un uomo molto importante te lo chiedono tutta la vita. Un mito non muore, sennò non è un mito: è una merdolina di passaggio».

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Con Gino Paoli, nel 1981.

Ma lei non è la donna d’un mito, lei è un mito in sé.

«Ma io non voglio essere un mito».

Strehler le ha insegnato il mestiere, non è un talento che hanno tutti i grandi, quello di trasmettere la conoscenza.

«Secondo te può essere un grande regista uno che non sa trasmettere? È un genio? Questa è una domanda del cazzo, scusa eh».

A lei piace scioccare l’interlocutore.

«Uno pensa: è Ornella Vanoni, dice quello che vuole. Ma io sono sempre stata così. Quand’avevo 14 anni non ero mica diversa da adesso. Ma non volevo scioccare, mi veniva naturale. A un pranzo dai Mondadori, mi alzai per andare a giocare con un cagnolino, tutti restarono con le posate per aria. Sto con fatica a tavola a lungo. Andavo dalla mia amica ed entravo dalla finestra. A 13 mi ero tagliata i capelli a spazzola, platino».

Dice sempre che senza Strehler avrebbe fatto l’estetista, ma si scoccerebbe dopo poco, se ne andrebbe lasciando la maschera su una cliente.

«Però una bella profumeria, vendi le creme, c’è sempre gente, non sei mai sola...».

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Ornella Vanoni con Claudio Baglioni al Festival di Sanremo 2018.

Ci mettiamo a parlare della tv d’una volta, e la Vanoni spiega che oggi ci sono migliaia di canali accesi 24 ore, «e per riempirli ci vogliono milioni di persone e milioni di cazzate». Della discografia d’una volta, e mi convince che gli Lp li compravamo per le copertine. Della gestualità: «Perché le cantanti nuove cantano tutte così?», e fa un movimento con le braccia da terra verso l’alto, «Guardale, Emma, tutte: come se dovessero tirar su la musica, la voce, come se nuotassero»; poi si alza e si mette a cantare Senza fine facendo su e giù con le braccia, con un effetto abbastanza esilarante. Di Marilyn Monroe, «Strehler me l’ha subito detto: la gente non ha capito niente, questa è un genio. Siamo andati a vedere Fermata d’autobus, con Giorgio. Lei ha freddo, uno le dà una giacca, e a lei per l’emozione si gonfia una vena, e lui mi disse: vedi, l’intensità. Invece odiava la Masina. Faceva la sua imitazione, in tutti i ruoli, sempre la stessa faccia». In qualche modo finiamo a parlare della schiavitù dell’essere sempre reperibili: «Io lo odio», dice indicando il cellulare. «La vera trasgressione è uscire senza telefono ed essere fedeli».

Esserlo in assoluto è una trasgressione?

«Oggi sì, perché le donne possono anche lasciare».

Noi che le ascoltiamo tendiamo a credere che le canzoni parlino di chi le canta…

«È giusto così».

Quanto c’è di lei in «che prima gioca e poi ci muore»?

«Cos’è? Ah, Vai Valentina. L’abbiamo scritta con Bardotti (Sergio, paroliere, ndr), io stavo ancora in via S. Andrea. Era una ragazza che faceva yoga con me, aveva una salopette, ci siamo ispirati a lei. La frase divertente è «cocca, polpa d’albicocca»: non ci veniva la rima, sono andata in bagno, sono tornata, cocca, polpa di albicocca. Cazzo, ha detto Bardotti, questa va a pisciare e torna con la rima. Sai quante Valentine incontro dell’età della canzone?».

Ho notato che al suo concerto viene giù il teatro su Domani è un altro giorno.

«Giorgio Calabrese (il paroliere, ndr) ebbe un’intuizione geniale, quel primo verso prende dai bambini di 10 anni ai vecchi. È uno di quei giorni che ti prende la malinconia: chi è che non l’ha provato? Nessuno è esente».

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Con Domenico Modugno al Festival di Sanremo 1967.

Chi la fa ridere?

«Pochissimi, ormai. Come si rideva con Walter (Chiari, ndr), giusto Fiorello. Geniale. Non genio, eh: geniale».

Qual è la perfetta canzone pop?

«Ancora oggi secondo me Sapore di sale è imbattibile. (Canticchia) Sapore di sale, sapore di mare, che hai sulla pelle, che hai sulle labbra... Senti proprio il corpo, senti l’acqua, il sale, la bocca».

So che non ne vuole parlare, ma quella del suo ultimo amore è una bella storia.

«Ma per carità, che vada sotto un tram».

È tornato dalla moglie. Come tutti.

«Avevano divorziato! L’aveva liquidata! Per paura di stare con me l’ha risposata! Uno stronzo...»

Ho sentito che si chiamava Marco: lo stesso che mollò la Pausini?

«Eh?».

Marco se n’è andato e non ritorna più… Niente, era una battuta.

«Non mi è arrivata».

Lei fa interviste da sessant’anni, non si annoia?

«Dipende».

C’è una domanda che non le hanno mai fatto e avrebbero dovuto?

«Le sarebbe piaciuto di più essere un uomo?».

E la risposta è?

«Troppo facile, non l’avrai» (fa il segno del “marameo” col pollice sul naso).

Sia magnanima, faccia finta che gliel’abbia fatta io, su.

«Mi sarebbe piaciuto, sì. Sarebbe stato più facile, in un Paese latino, dove con gli anni la donna diventa trasparente, esiste solo finché è seduttiva».

Le manca Lucio Dalla?

«Moltissimo. Ero sempre a Bologna, ora ci vado ma non è più la stessa cosa».

È una mia impressione o nelle sue canzoni c’era un’ironia che va perduta quando le canta qualcun altro?

(Canticchiando Disperato erotico stomp) «Hai mai visto una puttana ottimista e di sinistra... E poi quando l’altra tira su il vestito e vede il pelo, “Che nero!”, poi vado a casa, non ho fatto niente con la puttana, salgo la scala, vedo una stella, mi parte una mano, mi si gonfia la cappella: ma chi è che ha questa capacità? È bellissimo essere spudorati».

Quella in effetti poteva cantarla solo lui.

(Imitando l’accento bolognese di Dalla) «“Tesoro, ti ho scritto una canzone bellissima: Cara”. E dopo un po’: “Tesoro, la canto io”».

Cioè lei doveva cantare Cara e poi lui se l’è tenuta? L’ha picchiato, spero.

«Ma no, non ho mai picchiato nessuno. Tranne una mia amica. Le ho dato un pugno nel naso, il ghiaccio, che rottura di palle. Era isterica, le dicevo “Che cos’è che hai”, non me lo diceva, pum, “adesso me lo vuoi dire che cos’hai”».

Alla fine gliel’ha detto cos’aveva?

«Certo. Una stronzata».

Il tour 2018 di Ornella Vanoni

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Courtesy photo
La cover dell’ultimo album di Ornella Vanoni, Un pugno di stelle (Sony Music).

Ornella Vanoni è in tour con La mia storia: il 22 luglio 2018 sarà a Foggia; il 26 luglio a Bard (AO); il 29 luglio a Zafferana Etena (CT); il 2 settembre a Todi (PG); il 28 ottobre a Lugano, in Svizzera.