Ha collezionato premi prestigiosi per i suoi romanzi ma è con i pamhplet femministi che la scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie sta suscitando interesse e attenzione. Il tema è tornato a essere tanto attuale e scottante da aver dato vita al movimento globale #MeToo ma anche alle Pussyhats Marches di tutto il mondo.

La Adichie ha partecipato direttamente ad una di queste manifestazioni, a Washington. Sono state 500.000 le donne a scendere in strada nella città americana per protestare contro il sessismo nella politica. Lo hanno fatto indossando un cappello rosa a ricordare la vagina evocata da Trump nella sua infelice battuta, una di molte.

«Ero così felice di essere là in mezzo quel giorno, e credo che sia stato utile vedere a far vedere che non siamo soli nel resistere al nuovo corso politico, che non è solo contro le donne, è anti-tutto. Le marce serviranno a cambiare le cose? Probabilmente no, non lo so, ma i simboli in politica contano».

E contano anche le parole. Il suo Dovremmo essere tutti femministi, nato come discorso a TED e diventato un libro, è già considerato un classico, tanto che nel 2015 in Svezia fu distribuito a tutte le sedicenni. Il più recente Cara Ijeawele ovvero Quindici consigli per crescere una bambina femminista è tornato sull'argomento. E ha ampliato la prospettiva.

«Mi sono accorta di recente che mi arrabbio più per il sessismo che per il razzismo. E la ragione è che nel mio essere arrabbiata contro il sessismo mi sento spesso sola. Perché amo e vivo in mezzo a gente che è più disposta a riconoscere un’ingiustizia di razza che un’ingiustizia di genere. Non ti dico quante volte persone a cui voglio bene – uomini e donne – mi hanno chiesto di attestare la questione del sessismo, di “portarne le prove” per così dire, mentre non si sono mai aspettati che facessi lo stesso per il razzismo».

L’ultimo libro parte dalla parità di genere ma il discorso si estende ben oltre chiamando in causa il riconoscimento della dignità e del valore di un essere umano in quanto semplicemente umano. All'autrice non dispiace trovarsi sotto il “cappello del femminismo” – ha detto in un’intervista al Guardian – ma è accaduto per caso, non è stato intenzionale. Peraltro il femminismo contemporaneo di cui Adichie è oggi considerata una voce nuova e autorevole include anche quel che la scrittrice bolla e condanna come femminismo light.

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Ne parla anche in Cara Ijeawele spiegando che un femminismo che prevede l’esistenza di certe condizioni non ha niente a che fare con la vera uguglianza. La legge dell’inversione dei fattori è lo strumento per accorgersi se si è di fronte a questo tipo di atteggiamento: se in una data situazione al posto di una donna ci fosse un uomo, le reazioni sarebbero le stesse? Spesso la risposta è ancora no.

Adichie ha sempre espresso le sue riserve verso un certo di tipo di femminismo giovanile da social media eppure il suo messaggio ha finito per trovare terreno fertile in questo ambiente, forse meno impegnato ma più capace di diffondersi capillarmente e attirare l’attenzione sulla questione. Così il discorso a TED è stato campionato da Beyoncé nel singolo Flawless e Dior ha usato il titolo di quell'intervento sulle sue slogan t-shirt, da molti criticate come femminismo da copertina.

Forse sarà stato un caso essere diventata una voce del femminismo attuale ma non per caso ha scritto la lettera indirizzata all'amica che, incinta della sua prima figlia, le ha chiesto qualche consiglio su come allevare una bambina femminista. Consigli gliene ha dati quindici in questa breve ma intensa lettera «nella speranza che risultasse onesta e pratica, e che servisse al tempo stesso da mappa del mio pensiero femminista».

Proprio come su una mappa, l’autrice traccia le sue convinzioni con chiarezza, molti esempi reali e suggerimenti pratici e, pur usando il tono confidenziale e intimo con cui si parla all’amica di tutta una vita, è capace di trasmettere un messaggio universale.

I movimenti femministi attuali li supporta in prima persona, incluso il recente #MeToo esploso su Twitter (che la scrittrice non usa nemmeno), ma Chimamanda Ngozi Adichie è dell’idea che la rivoluzione femminista debba attecchire più in profondità. Nel modo di crescere le nuove generazioni, per cominciare, ma anche nel rapporto che abbiamo con il linguaggio e le parole che usiamo per descrivere le situazioni quotidiane. La lingua, ne è convinta, è una delle questioni centrali del femminismo.

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Lo scorso aprile, nel corso del PEN World Voices Festival, la scrittrice ha intervistato Hillary Clinton e le ha fatto notare che nel profilo su Twitter si descrive come «moglie, madre, nonna» mentre la bio del marito recita « fondatore della Clinton Foundation e 42esimo presidente degli Stati Uniti».

I ruoli tradizionali femminili dunque sono ancora etichette che ci identificano quasi esclusivamente, agli occhi degli uomini e della società in generale ma anche ai nostri stessi occhi. Molte donne, anche le più istruite e impegnate come la ex-candidata alla presidenza americana, si percepiscono in primis nel ruolo di moglie e di madre e solo dopo, ma neanche così spesso, in altri termini.

Per giustificare la sua scelta la Clinton ha ricordato un discorso di Barbara Bush dei primi anni Novanta che l’aveva colpita: la first lady di allora affermava che alla fine di una lunga giornata quello che conta non è aver ricevuto un aumento a lavoro o aver scritto un libro di successo, ma se sei una persona che ha a cuore le relazioni.

Adichie nella sua lettera si domanda se questo atteggiamento non derivi da uno squilibrio inculcato sin da piccoli per mezzo di modelli che è necessario superare. Tradizionalmente alle bambine si insegnava ad aspirare al matrimonio come ad un obiettivo da raggiungere mentre per i bambini non era così, stabilendo presto un divario emotivo riguardo al rapporto con l’altro sesso che penalizzava nelle donne ogni altra sfera di realizzazione personale, ponendola sempre in secondo piano.

Il suo dunque è un appello a cambiare la percezione che le donne hanno di se stesse nella società e la descrizione che ne fanno perché sia possibile trasmettere nuovi modelli, più giusti e paritetici, anche ai figli. Al di là del genere perché al centro del discorso l’autrice pone l’umanità, vero fulcro del suo lavoro, che siano pamhplet femministi o la produzione letteraria. La letteratura, è convinta, è un modo per capire e interpretare l’umanità, per riconoscerla negli altri e in se stessi. Lo ha ribadito anche nel recente discorso ai neolaureati 2018 ad Harvard:

«Pensate alla gente come persone […] fragili, imperfette, con un orgoglio che può essere ferito e un cuore che può essere toccato. […] Ho imparato dalla letteratura che noi umani siamo pieni di difetti, tutti noi abbiamo difetti, ma nonostante ciò siamo capaci di costante gentilezza. Non abbiamo bisogno di essere perfetti per fare ciò che è giusto».

Non è troppo diverso da quello che dice in Cara Ijeawele, pur parlando di donne che devono avere pari dignità, che non dovrebbero più sentire il bisogno di compiacere qualcuno e che vanno assolutamente liberate dalle trappole in cui si tenta di rinchiuderle non solo con l’esercizio della violenza fisica o psicologica – solo il più plateale dei metodi – ma anche attraverso atteggiamenti più subdoli e radicati sin dall'infanzia, che le donne stesse accettano passivamente o addirittura perpetuano trasmettendoli ai figli.

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Non sono il giudizio, l’approvazione e la condiscendenza degli altri che determinano il valore di una persona né cosa può fare in base al ruolo che la società ha confezionato per lei, insiste Adichie. La società confeziona presto i suoi cliché, la scrittrice se ne accorge cercando un regalo di nascita: per le bambine tutine rosa, per i bambini tutine azzurre; per le une bambole e per gli altri elicotteri.

Sono suddivisioni nette e aprioristiche che si ripetono crescendo, già nell’adolescenza, e che rischiano di sfociare in pericolose associazioni. Come l’etichetta di frivolezza guadagnata per la propria passione per la moda o il trucco, tradizionalmente associati al mondo femminile. O, più grave, la scelta dell’abbigliamento legata alla morale, un fatto che riguarda esclusivamente alle donne. Nessuno, continua Adichie, si aspetta che un uomo debba vergognarsi delle passioni considerate tipicamente maschili come alcuni sport o le auto. Perché invece una donna deve sentirsi spesso sminuita nella sua intelligenza e nelle sue competenze se mostra di amare un rossetto vivace?

Le differenze, lo sottolinea in tutti i suoi interventi pubblici e lo ribadisce nel libro, non vanno negate ma neanche sfruttate come strumento di sottomissione e potere, dovrebbero invece essere valorizzate come espressione di sé. E non solo in termini di genere ma proprio in quanto umane, semplicemente umane. Alle differenze e al loro valore ha fatto riferimento anche a proposito del vivere a cavallo tra due culture, come nigeriana di nascita ma americana d’adozione. Per scelta Chimamanda Ngozi Adichie vive parte dell’anno a Lagos e parte negli Stati Uniti e dice:

«Non mi considero un’immigrata, ma una persona molto fortunata con due case, due cittadinanze e due punti di osservazione. L’identità è sempre stata una questione complessa, e che lo diventi di più in un mondo così mobile, paradossalmente è meglio».

Il primo consiglio che dà nella lettera all'amica è proprio quello di essere una persona completa evitando di definirsi solo in termini di maternità, mantenendo il proprio nome, il lavoro, passioni e interessi. L’identità si costruisce investendo sulla versione migliore e più sfaccettata di se stessi e non basandosi su ciò che gli altri si aspettano.

«Insegnale a bandire l’ansia di compiacere.continua più in làIl suo obiettivo non è rendersi piacevole agli altri, il suo obiettivo è essere pienamente se stessa, una persona onesta e consapevole della pari umanità degli altri».

Lo scorso anno alcune sue dichiarazioni a proposito delle donne trans, le cui esperienze – diceva – non sono equiparabili a quelle di donne nate tali, avevano suscitato un vespaio. Erano state interpretate come se si volesse stabilire un canone di maggiore o minore femminilità. L’immediato attacco aveva lasciato di stucco la scrittrice colpita dalla “rapidità dello sdegno” e dalla “fondamentale mancanza di compassione” che caratterizza molte delle discussioni di oggi e che di fatto annichilisce il dibattito.

Ciò che invece ancora una volta con quell'intervento si sottolineava era quanto appiattire le diversità e fingere che non esistano sia l’unica via sicura per approfondire le discriminazioni. In definitiva è proprio questo il cuore del messaggio di Cara Ijeawele: riconoscere la diversità propria e altrui equivale a riconoscersi umani perché: «siamo tutti di razza umana ma le differenze esistono e quelle differenze influiscono sulle nostre esperienze, sulle nostre opportunità. Negarlo è fondamentalmente disonesto».