Quante sfumature servono per descrivere Lena Dunham? Sicuramente più di 50. La più a fuoco, ultimamente, è quella da editorialista: Lenny è una newsletter che ha fondato insieme a Jenni Konner – produttrice di Girls, migliore amica e «guardia del corpo emotiva» – per discutere nei dettagli la sua visione del mondo, ché «Twitter serve quando si vuole lanciare un messaggio, ma poi la conversazione deve potersi sviluppare altrove».

Lenny è l'altrove, dato che per un po' Dunham non concederà interviste – nemmeno per promuovere l'ultima stagione di Girls, dal 21 febbraio in onda negli Stati Uniti – e si concentrerà invece della sua endometriosi: «Il mio corpo (oltre che i miei straordinari medici) mi ha fatto capire senza mezzi termini che è il momento di fermarsi». (Il 6 marzo, Dunham è stata ricoverata in ospedale per la rottura di una cisti ovarica: è stata dimessa, e si sta riprendendo).

Quante attrici conoscete che scrivono su Instagram di uteri e sangue? Eppure l'endometriosi è una malattia che colpisce una donna su dieci: è improbabile che Lena sia l'unica ad avere il problema.

Recentemente su Lenny Lena Dunham si è occupata di Kesha, la cantante alla quale il 19 febbraio è stata rifiutata la richiesta di rescindere il contratto con Sony perché, secondo i giudici, risulta impossibile dimostrare i denunciati abusi sessuali e psicologici perpetrati dal produttore Dr Luke.

«Quello che sta succedendo a Kesha evidenzia come il sistema legale americano continui a offendere le donne, rifiutandosi di proteggerle dagli uomini che le vittime identificano come molestatori», ha scritto Lena. E riferendosi alle innumerevoli espressioni di solidarietà dei giorni successivi (le più eclatanti: Adele ha dichiarato il sostegno a Kesha dal palco dei Brit Awards; Taylor Swift ha contribuito con 250.000 dollari alle spese legali) ha rilanciato: «I giorni del terrore sono finiti. Non abbiamo più paura di perdere quello per cui abbiamo lavorato, di essere etichettate come "isteriche" o "complicate", di venire zittite dagli uomini di potere. Le donne dell'industria musicale che si sono schierate dalla parte di Kesha ne sono la prova».

Il merito di questa ritrovata pubblica sorellanza è anche suo, che da sempre usa la celebrità per affrontare gli aspetti più controversi della questione femminile con un'irresistibile capacità di guadagnare il centro del dibattito.

Al Sundance Film Festival, dove l'abbiamo incontrata prima del temporaneo ritiro, Lena Dunham è stata l'anima della festa: giudice, produttrice del documentario Suited, e madrina del party più popolare in calendario, Sex, Politics, and Film – a tema discriminazione, stupro, aborto e sesso protetto, con coerente distribuzione di finte pillole di cioccolato e preservativi veri – in collaborazione con Planned Parenthood, l'organizzazione che offre educazione e assistenza per la salute sessuale e riproduttiva. «Queste associazioni sono una grande risorsa per noi donne: l'informazione viene prima di tutto. E noi artiste, noi autori, abbiamo la responsabilità di porre l'attenzione su temi cruciali come l'aborto e la contraccezione».

E lei è sempre in prima linea.

È importante essere oneste, non stigmatizzare, non predicare. Solo battersi, sempre e con tutto il cuore, per il diritto di scegliere. Procreare oppure no: non è un problema politico, è umano. E servono sempre più film e documentari che raccontino le difficoltà, le discriminazioni che ancora esistono. Sono convinta che noi ragazze, invece di metterci in competizione, dobbiamo sostenerci, mettere insieme la nostra energia. Solo così possiamo essere una forza.

In occasione del 43esimo anniversario della sentenza Roe v. Wade (che negli Stati Uniti regolamenta l'interruzione di gravidanza, ed è sotto il costante attacco di gruppi estremisti religiosi e repubblicani, ndr) lei ha invitato le donne a chiedere alle proprie madri di raccontare le loro storie di aborto. Sua madre, dopo qualche esitazione, ha scritto la testimonianza di un'esperienza fatta da giovanissima.

È fondamentale non nascondersi: non c'è nulla di cui vergognarsi a essere responsabili delle scelte che ci riguardano. Io sono stata fortunata ad avere una madre che mi ha parlato di tutto, e mi ha insegnato a gestire il mio corpo. Ho sempre saputo che, se avevo un problema, se mi mettevo nei guai, potevo andare da lei. È grazie a lei che sono capace di scrivere di sesso, e di tutto, senza mai sentirmi a disagio.

Suited, il documentario presentato al Sundance di cui è produttrice, racconta di una sartoria di Brooklyn, la Bindle & Keep, che crea abiti su misura per transgender

In Suited abbiamo messo insieme le storie dei vari protagonisti come fosse un film, per creare un intreccio appassionante, ma allo stesso tempo testimoniare il percorso doloroso che hanno dovuto affrontare certe persone per affermare la loro identità. C'è anche mia sorella Grace (attrice, attivista, scrittrice, ndr), che è la persona più cool che conosca, e quindi lo sento molto "mio".

Alle primarie americane lei sostiene Hillary Clinton.


Certo, solo così noi donne possiamo avere più potere: arrivando ai vertici, dove si prendono le grandi decisioni.

(di Alessandra Mattanza e Serena La Rosa)