Fuori da ogni classificazione, riservatissimo, ansioso, ironico "qualcuno ha detto che ci sono solo due persone eleganti in T-Shirt, Giorgio Armani ed io", dice, quanto l’essere geniale oltre misura, se a parlare invece è la musica, il suo linguaggio preferito.

Giovanni Allevi si nasce, e si diventa, verrebbe da dire, pensando a quello che è considerato uno dei migliori maestri e compositori contemporanei, capace di reinventare, da filosofo com’è, un nuovo modo di fare spettacolo. A margine della partenza per una serie di concerti in Oriente (undici città, tra Cina e Giappone), incontriamo l’artista marchigiano a Milano, soffermandosi su un anno dove tutto sta funzionando, in primis l’Equilibrium Tour, che lo vedrà protagonista in altre tappe italiane, dal 26 luglio al 18 agosto. Reduce dal successo dell’ultimo libro, L’equilibrio della lucertola, edito da Solferino, ora si gode addirittura un passaggio al cinema, grazie al film – evento, Equilibrium – The Film Concert, opera prima di Fabrizio Cavada, in sala dal 18 al 20 giugno. Un viaggio inedito, musicale e visivo, raccontando il live della première dell’opera sinfonica tenutasi al Teatro Dal Verme di Milano lo scorso novembre, il punto di incontro, e maturità, dove scoprire le sue tante anime, (r)accogliendo ulteriore pubblico e conoscenza.

Il 2018 si sta rivelando ricco di soddisfazioni, ora approda sul grande schermo, com’è stato rivedersi?

C’è stato un sforzo collettivo incredibile, da parte del giovane regista, così come le tecniche di ripresa e audio, la sperimentazione è stata finalizzata ad un solo elemento, l’emozione, immersiva e coinvolgente.

La locandina sembra rimandare molto a The Walk di Robert Zemeckis, dedicato alla storia di Philippe Petit, vi accomuna l’essere un po’ funamboli, no?

Lui era in perfetto controllo, io invece vacillo, ma mi rendo conto che l’importante è proprio riuscire a perdere l’equilibrio, nella musica, così come nella vita il meglio di me l’ho sempre dato quando l’ho perso, in cui sono uscito fuori dagli schemi, affrontando anche momenti di confusione, insonnia, non dormendo la notte. Per questo il film è il coronamento di un percorso che mi porta finalmente ad uno squilibrio positivo (ride, ndr), un racconto filosofico che giunge al suo finale “catartico”.

Parliamo per un secondo di cinema, cosa La appassiona veramente?

Le pellicole di Hayao Miyazaki, disegnate a mano, perché sanno tenere nel tempo, influenzando gli altri attraverso una propria manualità.

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Le piacerebbe comporre al servizio dell’animazione?

Vediamo che cosa succede, potrebbe anche accadere (ride, ndr).

Ricerca e creatività, trovando continue forme di nutrimento, Lei dove trova la Sua ispirazione?

La chiave è cercare di essere sinceri, noi lo siamo quando accettiamo la nostra fragilità e non chiudiamo gli occhi di fronte agli eventi difficili della vita, come il terremoto nel 2016 nel Centro Italia (da lì nacque poi No Words scritta proprio il giorno dopo), il panico, la nostra ansia. Quando riusciamo a non scacciarla, ma a parlarci, riconoscerla nell’altro, siamo allora nel mondo della verità, allora è lì che c’è il nutrimento dell’arte.

Partiamo dal buio dell’anima, senza sapere che troveremo poi una luce, questo è il senso.

A proposito di questo, a breve partirà nuovamente per il Giappone, a cui è legato in diverse maniere, anche a seguito di quanto le è successo proprio l’anno scorso.

Sono stato giapponese in una vita passata! È un paese che ha segnato diversi momenti, nel 2017 durante un concerto ebbi la riduzione drastica del campo visivo, oggi rimasta permanente. Mi si è aperto comunque un mondo fatto di altre sensazioni, intuiti, tatto, udito, silenzio, tornerò lì quasi come un eroe (sorride, ndr). Nonostante il distacco della retina andai avanti lo stesso, finendo il concerto, salutando il pubblico, facendo gli autografi, le foto, tornare lì significa andare a raccogliere l’amore che ho dato.

Oltre al rifugio, c’è qualcosa di epico in ciò che fa allora?

Certamente, lo è sempre stato, anche se ora sceglierei semmai la parola coraggio.

Perché?

La musica nasce in solitudine, anche se in questi ultimi anni mi sto dedicando a nuove sfumature, architetture più dilatate, concerto per pianoforte e orchestra, la cantata sacra, toccata fuga per organo. È una forma di coraggio. Il mondo di oggi sta andando tutto da un’altra parte, verso una fruizione immediata e veloce, per cui le forme musicali si sono contratte, passano dai meccanismi di comunicazione e al grandissimo pubblico, diventando molto brevi, poiché non impegnano troppo l’ascolto.

Io invece vado controcorrente, i miei miti sono da sempre Beethoven, Rachmaninov, Stravinsky, Bartók...scrivo attraverso quelle forme tipiche della tradizione. Magari, di conseguenza, perderò nel percorso qualche persona, ma pazienza, un motivo in più per tenermi stretto il gruppo di fedelissimi che invece mi segue.

L’anno prossimo arriverà ad un traguardo importante, 50 anni: come li vivrà?

Non mi piace pensare di arrivare a quell’età e finalmente acquisire una saggezza, anzi me ne voglio liberare, perché ciò che rimpiango degli inizi di carriera è proprio l’incoscienza giovanile che sto cercando di recuperare. E poi anche se ci sono tanti album, non voglio far credere a chi mi osserva di essere vulcanico, passo in realtà molto tempo a non fare niente, non sono un uomo d’azione, amo l’isolamento e la riflessione, poi però arriva l’attimo in cui sento dentro di me che è necessario esprimersi in tutti i sensi.