È una sera di qualche anno fa, e Philip Roth ha un sacco di tempo libero. Da quando ha annunciato (settantanovenne) che coi romanzi ha chiuso, esce molto: i pettegoli dicono che quel tizio che finché scriveva neanche poteva distrarsi per rispondere alle email ora andrebbe anche all’inaugurazione d’una profumeria. È una sera a una cena di bella gente, e seduta vicino a lui c’è una giovane donna che ha appena pubblicato il primo romanzo. Roth annuisce sorridente: è plausibile non gli importi granché del libro, ma gli piacciono le belle donne. Poi lei sorridente gli domanda: e lei di cosa si occupa? I commensali vorrebbero sotterrarsi dall’imbarazzo, ma Roth non perde il buonumore: era un uomo che aveva un debole per le donne nel loro complesso, lacune comprese.


Nell’anno in cui Truffaut fece uscire L’uomo che amava le donne, il film intitolato con una frase che definisce Philip Roth più precisamente di «L’ultimo grande romanziere americano», lui pubblicava Il professore di desiderio, in cui uno dei suoi alter ego molestava studentesse (oggi lo processerebbero a mezzo hashtag). E infatti da quando è morto la settimana scorsa, il 22 maggio – ottantacinquenne, venerato maestro, senza Nobel ma ancora capace di farci battute su – non manca chi spiega che era solo un altro schifoso maschilista che aveva monopolizzato la letteratura in forza dell’essere un maschio bianco. Certo, le sue donne erano isteriche, bugiarde, manipolatrici (molto è stata rintracciata, nell’ispirarle, l’ex moglie Claire Bloom; ma da indagare sarebbe lo stampino dell’ex fidanzata, Mia Farrow). Ma i suoi uomini erano ossessionati dal sesso, dalla morte, dall’inadeguatezza: c’era una certa parità tra i sessi nel fare schifo (d’altra parte con la brava gente non si costruiscono storie interessanti).

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Anthony Hopkins e Nicole Kidman in una scena del film La macchia umana (2003), tratto dal romanzo omonimo di Roth.

Tutti vi parleranno di Pastorale americana e del Teatro di Sabbath, ma a farsi dire «bravo» con l’epica d’una nazione son capaci tutti; è sulle cose piccole, che si dimostra il genio. Inganno è un libro che Roth scrisse nel 1990, prendendosi una pausa da Portnoy (il ragazzino che si scopava il pranzo di famiglia: una fetta di fegato fatta scaldare sul termosifone), e Kepesh, e Zuckerman, gli alter ego che avevano convinto i lettori che l’autore fosse fissato col sesso: in La controvita (1986) ha creato un protagonista disposto a morire pur di non prendere i betabloccanti che lo renderebbero impotente; è evidente che mette la propria erezione in cima alla lista delle priorità. Era il Novecento: oggi, uno così sarebbe il nemico pubblico numero uno e dei suoi libri si chiederebbe il ritiro dal mercato – ma non divaghiamo. Inganno è il momento in cui Roth rinuncia ad alter ego e descrizioni: sono solo dialoghi, tra due amanti. Il libro è fatto delle conversazioni che i due hanno a letto, tradendo moglie e marito. A un certo punto, lei lo processa. «Può spiegare alla corte perché odia le donne?». «Ma non le odio». «Perché ha dipinto la signora Portnoy come un’isterica? Perché ha dipinto Lucy Nelson come una psicopatica? Perché ha dipinto Maureen Tarnopol come una bugiarda e un’imbrogliona? Forse che questo non diffama e non denigra le donne? Perché dipinge le donne come delle bisbetiche, se non per metterle in cattiva luce?». «E perché lo fece Shakespeare?». «Lei osa paragonarsi a Shakespeare?».

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Ewan McGregor e Jennifer Connelly in Pastorale americana (2016), altro film tratto da un libro di Roth.

Chissà se il Processo a me stessa di Anna Oxa era ispirato a quelle pagine. Chissà se Roth vedeva il futuro, o se lo viveva già: erano decenni che raccontava le donne viste dagli uomini; gli davano del maschilista da prima che fosse un’accusa à la page (dicono che perciò non gli abbiano mai dato il Nobel; lui diceva che gliel’avrebbero dato se avesse intitolato Il lamento di Portnoy con un più pomposo L’orgasmo sotto il regime del capitalismo rapace). Chissà perché il corso alla Columbia in cui lo scrittore Gary Shteyngart spiega le opere rothiane s’intitola «Il maschio isterico», e non «Il maschilista sentimentale».