Ci sono delle (tragiche) somiglianze tra la vita del dj, producer, compositore Avicii, trovato morto in Oman a soli 28 anni per cause ancora da accertare, e quella del musicista che fondò il grunge, Kurt Cobain. E queste vengono tanto più fuori guardando il documentario di Netflix Avicii True Stories, girato dall’amico Levan Tsikurishvili e frutto di quattro anni di riprese. Quattro anni di gioie e di tormenti, per lo svedese Tim Bergling (questo il suo vero nome), colpito, giovanissimo, da una pancreatite che diventerà ben presto causa di una catena di problemi via via sempre più giganteschi e spaventosi. Proprio come a Kurt Cobain prima di lui era toccato dover far fonte a dolori lancinanti allo stomaco, così all'autore geniale di hit stra famose come Levels e Wake me up è d'un tratto diventato obbligatorio conciliare una vita fatta di oltre 400 date in un anno e mezzo con un perenne stato di malessere. Questo lo snodo, delicatissimo, di una parabola inizialmente da sogno, ma che ben presto ha assunto i colori dell'incubo peggiore di tutti: il male di vivere.

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Quel male, per capirci, che a un certo punto fa dire a un allora 25enne Avicii quanto sia terribile "non riuscire provare alcuna gioia nel fare la cosa che in assoluto più si ama al mondo", ovvero suonare davanti a centinaia di migliaia di fan in delirio. Perché il freno spinto al massimo sull'acceleratore non era cosa per lui, che, in un dialogo dolcissimo con un amico durante uno dei milioni di viaggi da una parte all'altra del globo, dice di "appartenere a quella che Jung chiama la categoria degli introversi, che subiscono i convenevoli, le situazioni sociali, le feste, preferendo i dialoghi profondi. Mi sono sentito tutta la vita inferiore agli estroversi, quelli che sanno come ci si comporta ai party, ma adesso ho imparato a fregarmene di quello che pensano gli altri". Magari fosse stato davvero così. La realtà (e oggi che anche dalla famiglia di Avicii arrivano parole come "Tim non poteva più andare avanti. Voleva solo trovare un po' di pace. Il nostro amato Tim era un’anima artistica e fragile alla ricerca di risposte a domande esistenziali. Un perfezionista ambizioso che ha sempre lavorato duramente, a un ritmo che l’ha portato a vivere uno stato di stress estremo") è che Tim non si è liberato dai suoi fantasmi: ansia, stress, dolore fisico, più alcol per cercare di domare il tutto.

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Era fragile, amava la musica in maniera viscerale, amava, purtroppo, anche il controllo totale su qualunque cosa facesse, questo esile ragazzo svedese stimatissimo da fior fior di colleghi come Tiesto, David Guetta, Wyclef Jean, che nel docu-film lo paragona a un moderno Bach "perché ha tutte le note chiare nella testa, come un vera sinfonia". Si scordava di bere e di mangiare, quando lavorava a un album, andava avanti a tabacco da masticare, lasciando intonsi i piatti che i suoi amici-assistenti gli lasciavano sulla scrivania, dove lui aveva occhi solo per il Mac e la traccia che stava componendo. Si scordava di dormire, di, in sostanza, prendersi cura di sé, finché non ce l'ha fatta più e ha deciso di mollare. Di non suonare più. Sapendo, come dice lui stesso in un attimo che ha il sapore amarissimo del presagio, "che nel momento in cui smetterò di esibirmi, sarà la fine per me". E fanno, proprio perché è andata come sappiamo, ancora più male le immagini che sul finale ci fanno vedere Tim in un'isola del Madagascar, in apparente salute, suonare la chitarra e sorridere, accarezzare le scimmie e perdersi nella giungla, perché sembra davvero che per lui ci potesse essere un lieto fine. Lontano dalle pressioni dello star system e vicino a quella natura che già una volta lo aveva quasi salvato, ma non del tutto.