La scorsa settimana, a Piazzapulita, mi sono arrabbiato parecchio. Si discuteva della frase del grillino Alessandro Di Battista contro Matteo Renzi, accusato di essere «credibile come un mafioso di Mafia capitale». Una frase insultante alla quale ha risposto per le rime l'onorevole Gennaro Migliore del Pd. Tutto finito? Macché. Qualche minuto dopo, un altro esponente del Partito democratico ha dato in escandescenze per le parole del parlamentare cinquestelle, invocando la dissociazione del sottoscritto. Come se il problema fosse la mia presa di distanza, ovvia, e non l'immunità dei nostri parlamentari. 

Allora non ci ho visto più e ho sputato il rospo: sarebbe ora che i politici rispondessero in tribunale dei loro insulti e delle loro c....te, come tutti gli altri cittadini. Ma questo, a causa dell'insindacabilità delle loro "opinioni", non avviene quasi mai. È soltanto il Parlamento, infatti, a decidere se le affermazioni di un suo membro siano o meno punibili. E la tendenza è quella di proteggere i propri componenti, garantendo a ciascuno la libertà di offendere «nell'esercizio delle proprie funzioni». La norma sull'immunità, sacrosanta all'indomani del fascismo per tutelare i nostri rappresentanti e la loro libertà di critica, oggi viene usata a pretesto per offendere a piacimento. 

Così, alla Camera e al Senato ci si insulta, si grida, si gesticola (nella foto). Si mimano ombrelli, accoppiamenti, forme falliche. Si alza il dito medio. Si sventolano cartelli zeppi d'ingiurie, magari davanti a una scolaresca in gita invitata ad assistere a una lezione di educazione civica. I nostri poco onorevoli, non paghi delle gazzarre in Parlamento, proseguono quindi su Twitter. Salvo infine minacciarsi reciproca querela. Ma sono querele finte, perché tanto esiste l'insindacabilità. Basterebbe abolirla per legge. Ma nessuno lo fa, preferendo di gran lunga la libertà di diffamare.