Ogni articolo che tratti dei cosiddetti Panama papers, ovvero la lista dei titolari di società offshore panamensi trafugata da un hacker e distribuita a varie testate giornalistiche, precisa quanto segue: «Di per sé non è vietato controllare una società offshore. Basta segnalarlo nella dicharazione dei redditi». È una normale prudenza giornalistica per evitare cause legali. Ma chi di noi davvero pensa che qualcuno dei titolari di società nascoste negli archivi dello studio legale centramericano Mossack Fonseca lo abbia comunicato al fisco? Diciamolo: aprire società offshore a Panama, uno degli Stati più caparbiamente refrattari a ogni accordo di trasparenza bancaria, serve soprattutto a eludere le tasse. (Nella foto, manifestazione di protesta dopo la pubblicazione delle liste).

Si prendono dei soldi e li si affida a qualche vispo consulente o commercialista abile a farli sparire. Sono denari per lo più al nero, o comunque destinati a finanziare attività al riparo da occhi indiscreti. Nella rete della fonte anonima che ha svelato i Panama papers sono cadute società estere riconducibili, per esempio, ai tesorieri di boss mafiosi desiderosi di nascondere capitali frutto di traffici illeciti. Quanto ai nomi del jet set italiano, da Montezemolo a Verdone, dallo stilista Valentino al pilota Jarno Trulli a Barbara D'Urso, c'è chi rivendica totale estraneità e chi dichiara di avere le carte in regola. 

Vedremo come si muoverà il fisco italiano. Per ora il direttore dell'Agenzia delle entrate Rossella Orlandi, interpellata da L'Espresso, il settimanale che ha pubblicato per l'Italia in esclusiva le liste, si limita a ripetere la stessa frase di noi giornalisti: «Avere società estere è lecito, ma bisogna dichiararlo». Ma poi, alla domanda su quanti italiani abbiano denunciato legalmente le loro offshore, a parte i veri grossisti di frutta esotica, la sua risposta è chiara e disarmante: «Per la verità, nessuno». Appunto.