Due vivi e due morti. Non puoi gioire un solo istante per la liberazione e il ritorno a casa di Gino Pollicardo e Filippo Calcagno. Perché, accanto alle loro foto, ci saranno sempre quelle dei colleghi e amici Salvatore Failla e Fausto Piano, assassinati in circostanze ancora misteriose. Potevano, dovevano salvarsi tutti e quattro, perché evidentemente la trattativa era arrivata in porto. Quel che è successo nelle ultime ore è misterioso e inquietante. Le ipotesi sono molteplici e contraddittorie. D'altra parte, i libici che indagano su quel sequestro non si sa bene a che titolo lo facciano: a quale dei vari governi appartengono? A quale tribù, banda o fazione? 

Sabratha, la città che ha tenuto nascosti gli italiani per quasi otto mesi, è un incrocio di contrabbandieri, foreign fighters diretti a Sirte per arruolarsi nell'Isis, rapinatori e predoni. All'Italia, le autorità locali non hanno ancora spiegato neppure se gli ostaggi siano stati uccisi in un blitz dentro un casolare oppure, come appare più probabile da alcune fotografie pubblicate da Piazzapulita su La7, in uno scontro a fuoco fra veicoli nel deserto alle porte della città. Una di quelle foto ritrae il corpo senza vita di un ostaggio italiano adagiato ai piedi di una jeep, presumibilmente quella che lo stava trasportando. Nella foto successiva, la jeep viene data alle fiamme, come a voler subito cancellare eventuali tracce e indizi utili alla ricostruzione dei fatti. 

Tutte le foto sono scattate in pieno giorno, col sole alto, mentre l'uccisione di Failla e Piano è avvenuta sicuramente di notte. Il tutto ha il sapore schifoso di una messinscena. Nel modo in cui sono stati uccisi questi due lavoratori, costretti a emigrare per trovare il pane, c'è tutta la follia della Libia. E un monito pesante a chi pensa di fare la guerra senza sapere chi dobbiamo combattere. Quel Paese è un immenso deserto di sabbia senza  regole. Pieno di falsi amici e trappole nascoste. Si rischia, se non un Vietnam, un'altra Somalia.