Non faccio il politologo né mi avventuro nell'analisi dei flussi elettorali. Ma la sconfitta del Pd nelle grandi città, Milano a parte (ma che fatica anche lì...), pare dovuta a un effetto rottamazione al contrario. Se il Renzi che vinse le primarie del Pd appariva in rottura con le lobby e i vecchi papaveri del partito, quello di oggi sembra chiuso in una ferrea logica di consolidamento del potere, distante dai problemi delle persone ed estraneo alle dinamiche del proprio partito.

Dov'è finito il Matteo che scendeva dal camper e riempiva le piazze? Oggi non le frequenta più, né si fa vedere sui luoghi della sofferenza. Il suo discorso pubblico è incentrato ossessivamente sui risultati economici raggiunti, molto spesso definiti con aggettivi mirabolanti. E il richiamo costante a una narrazione positiva dell'Italia inizia a irritare i tanti che, pur apprezzando un leader ottimista, non vedono nella realtà quei segni di cambiamento annunciati con le fanfare. 

Basta guardare i voti nelle periferie delle grandi città per rendersi conto che è proprio lo scollamento tra «racconto» ed «esperienza» che sta alla base della frana elettorale del partito renziano. Roma, Torino, Napoli: tre delle quattro più grandi città d'Italia hanno votato contro, premiando Virginia Raggi, Chiara Appendino e Luigi de Magistris. Tre candidati anti sistema molto votati nelle grandi e sempre più povere periferie urbane. Dove la svolta economica non è arrivata affatto e i problemi sono quelli di sempre. E dove quei sindaci rappresentano oggi la rottamazione (almeno a parole) della vecchia politica.

La rabbia sociale è forte e i risultati economici scarsi. Ma se Renzi non riuscirà a connettersi di nuovo con i sogni e le paure degli italiani, se non tornerà a sembrare «uno di loro», altre sconfitte, cocenti, potrebbero arrivare.