Laura Santos è un'insegnante di Yale di 42 anni salita all'improvviso agli onori della cronaca per aver dato il via lo scorso 12 gennaio a un corso diventato in poche settimane il più seguito nella storia dell'ateneo. Alla prima lezione erano in 300, a quella successiva più di 600, fino ad arrivare agli attuali 1.200. Un'aula gremita in genere ne contiene la metà. Al momento uno studente su quattro del triennio frequenta i due incontri settimanali di Psychology and the good life della professoressa Santos. Ma cosa insegna di così interessante? La felicità. Sia chiaro, senza alcuna pretesa da guru. L'approccio è scientifico e i risultati associati all'impegno di ciascuno, come per qualsiasi materia di studio, dalla linguistica alla trigonometria. «Parto dal funzionamento del cervello svelando le tecniche di comportamento che secondo la scienza aiutano a fare scelte migliori e dunque a essere un po' più felici», ha spiegato l'insegnante. Un po' più felici, ha detto, per rimarcare che non è sua intenzione vendere fumo. Ma un po' è già molto.

Anche a Harvard e in molte altre istituzioni accademiche, le lezioni di Positive psychology, che spiegano come il 50 per cento della felicità sia determinato da fattori genetici e il restante 50 da agenti esterni e dalla nostra volontà, registrano da anni il tutto esaurito. Segno che in ambienti molto competitivi e ad alto tasso di stress trovare qualcuno che ci riporti al nocciolo della questione, e cioè che ci ricordi cosa conta davvero per conquistare se non la gioia la serenità, o una parvenza di equilibrio interiore, è un bel salvagente per non sbroccare. Oggi che stress e competizione sono pane quotidiano anche per chi non ambisce alla laurea in una prestigiosa università dell'Ivy league, essendo necessario competere per quasi tutto – un contratto, una casa, una qualsiasi certezza – le lezioni sulla felicità dovrebbero essere mandate in filodiffusione. Non solo nelle aule di scuole e atenei, ma anche nelle case, negli uffici, nelle fabbriche, nei grandi magazzini e anche nelle cuffie dei millennial on device.

Di tutti gli orribili fatti di cronaca delle ultime settimane, dalla storia di Pamela, donna-bambina scappata da una comunità e trascinata dalla carta moschicida dell'eroina dentro il copione di un pessimo splatter, a quella di Jessica, ragazza madre senza radici che ha perso la vita mentre tentava di rifarsela nella stanza in affitto del suo assassino, l'elemento costante mi pare sia un vuoto di senso assoluto. Quello delle vittime e quello dei carnefici: lo spacciatore nigeriano e i presunti complici che vivono ai margini da clandestini e il sadico tranviere che non resiste al corpo giovane della coinquilina accoccolata sul divano. Ma è vuoto di senso anche quello del vendicatore che spara contro i "neri" a Macerata, e quello dei fanatici che lo chiamano eroe e lo accolgono in carcere come un salvatore.

Il vuoto di senso genera frustrazione e poi odio. È frutto della solitudine e dell'abbandono; di aspettative e desideri sbagliati che non collimano con la realtà. Non conosce il rispetto – né quello per se stessi né quello per gli altri – e non conosce la cura, ha un'indole autodistruttiva. Se non hai niente da perdere puoi mettere a rischio la tua vita chiedendo ricovero a uno sconosciuto, oppure cercando un riscatto per le tue miserie sul corpo inerme di un'innocente. Alla fine, sono sempre storie di infelicità quelle che producono tragedie. Qualcuno si salva, qualcuno no. La maggior parte invece ci convive e basta, con l'infelicità, come fosse un male inevitabile, non avendo buone ragioni per lasciarla esplodere o scambiandola per stress, ansia da prestazione, inadeguatezza, meteoropatia. Ma è una bomba a orologeria che può deflagrare in ogni istante. Sarebbe bello e romantico pensare che per disinnescarla basti una brava insegnante di Yale.

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