L'ultima volta che ho partorito, ho avuto paura di morire. Avendo avuto delle complicanze con la prima figlia (robe splatter e schifosissime che non vi sto qui a dire), mi ero già messa nell'ordine di idee di non riaprire gli occhi dopo l'anestesia. Una possibilità remota, sia chiaro, che mi aveva mio malgrado messo addosso un certo stato di ansietà: non tanto per me, che fino a una decina di anni fa vivevo con sciocca e beata incoscienza l'inconveniente della mortalità, ma per i posteri. L'idea di essere dimenticata proprio non mi andava giù.

Ho scritto una lettera a mia figlia

Che cosa si ricorderà di me la mia bambina?, mi chiedevo. La nuova niente, ovvio, ma neanche io di lei, per quel che può servire all'altro mondo. Ci siamo frequentate nove mesi, ma non ci si conosce; non so neppure che faccia ha. È l'altra che mi premeva di sapere. Che cosa si ricorderà di me?, mi ripetevo. Niente. Né il mio sorriso né le fossette né gli occhi scuri così simili ai suoi, né i versi fatti con la bocca per farla mangiare, i pisolini nel lettone insieme, le passeggiate. Una mia amica di scuola aveva perso sua madre a tre anni e aveva di lei solo immagini confuse. Così mi ero decisa a scriverle una lettera. Incerta se darle istruzioni concrete (le mestruazioni, la prima volta, le posizioni migliori per rendere indolore la ceretta...) o invece parlarle dei massimi sistemi, l'amore, i tramonti, il senso della vita, tutte le cose belle che ho imparato e tutte quelle che non avrei saputo mai.

Un libro che è un testamento

Poi invece non sono morta. Sono qui. Viva e vegeta, clinicamente parlando. Ma non sempre presente. Distrattamente in vita, si può dire, come molti. In questi giorni si è molto parlato di un libro che in America è diventato in tempi record un bestseller. Si chiama Quando il respiro si fa aria ed è la storia in prima persona di un neurochirurgo di origini indiane, laureato a Stanford, Paul Kalanithi, morto ad appena 37 anni per un cancro al polmone. Una sorta di testamento, per raccontare in presa diretta l'evoluzione del tumore e di se stesso – insieme medico e paziente – da lasciare alla figlia e a tutti quelli che avranno la curiosità di leggerlo. Quando il libro è uscito, lui già non c'era più. Pensavo di trovarci memorabili perle di saggezza. Un campionario delle grandi verità che sempre si scoprono quando si intravede la fine del cammino.

Il tempo è prezioso

Invece ho trovato solo piccole verità. Facili e fondamentali. Per esempio che ogni giorno ricomincia da zero, e non c'è scusa che tenga se hai voglia di riscrivere la tua storia, qualsiasi sia l'inizio e ovunque sia la fine: lo dico per quelli che iniziano le frasi con «ormai». Che le cose importanti ci passano di continuo sotto al naso ma il più delle volte non le vediamo, un po' per pigrizia un po' per la fretta, ma quasi sempre per cialtroneria. Che non è mai tardi per partire, fare le cose che ci piacciono davvero, l'importante è non aspettare troppo, perché volerlo semplicemente può anche succedere che non basti più: si pensa di avere per sempre il controllo del proprio corpo e della vita, ma non è così. 

«Vivi con tutti gli organi e i sensi»

Sarà che sto invecchiando, sarà che mi avvicino a quell'età di mezzo in cui le cose corrono veloci, e un amico si ammala e un altro da un giorno all'altro non c'è più, ma leggerlo mi ha fatto bene. Perché non si può continuare a vivere sprecando tempo, pensando che tanto, prima o poi, si recupererà. Buttandolo via per cose inutili, tipo i litigi, le code all'Autogrill e i gruppi su WhatsApp. Poi è morto Prince, mentre scrivevo. A soli 57 anni. Ma almeno ci ha lasciato Purple rain. E, allora, ripensandoci, ho deciso che a mia figlia scriverei soltanto: vivi, con tutti gli organi e i sensi. Sforzandoti di fare almeno una bella cosa che resti. Io ci ho provato, e sei nata tu.