Il rientro dalle vacanze, quest'anno, è stato più faticoso del solito. E non per il mare, il sole, le valigie da disfare, le lavatrici da fare, l'abbronzatura che si sgretola come uno smalto scadente, ma per l'inquietudine. «Mamma, ma dobbiamo per forza tornare a Milano? Io ho paura. Non possiamo andare a vivere dai nonni?». L'11enne di casa non ha retto ai fatti di Barcellona. Qualcuno degli adulti, chiacchierando e commentando, si è fatto scappare che adesso toccherà all'Italia. Si è messa appartata su una poltroncina di vimini del grande patio al mare e ha cominciato a piangere in silenzio. Non sono serviti gli abbracci e le carezze, le parole tranquillizzanti e piene di buon senso, per distrarla e fugare le sue paure. Questa incognita del furgone killer che può investire lei o noi mentre si passeggia tranquilli per le vie del centro la lascia atterrita.

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Il tributo in piazza alle vittime dell\'attentato di Barcellona.

In cerca di rassicurazioni

Non basta dirle che dopo un attentato l'allerta si alza e tutti i controlli sono rafforzati, che molti punti della città sono già pieni di presidi e camionette, che basta cercare di evitare i luoghi a rischio. «Ma io ci vivo in metrò», ribatte la sorella maggiore. «Come ci vado a scuola? Che palle!». Come se l'Isis fosse uno sciopero o la neve, una catastrofe naturale che le impedisce di fare ciò che vuole. Anche a lei questa cosa l'ha turbata, anche lei si aspetta da noi grandi parole che allontanino i brutti pensieri evocati dalla Rambla. Ma non si accontenta di generiche rassicurazioni o abborracciati ragionamenti statistici – è più facile morire in un incidente d'auto o con la fatidica tegola in testa che per mano d'un terrorista – vuole la certezza che a noi non succederà.

L'ansia che genera il terrorismo

Ma noi questa certezza non l'abbiamo, nessuno ce l'ha, per questo ci sentiamo così fragili. Esposti alla follia dei seminatori di odio, incapaci di dare risposte convincenti, sprovvisti di antidoti e difese, per loro e per noi, contro questa nuova epidemia globale. Ripenso ai fantasmi che agitavano la mia infanzia. L'ansia che mi prendeva tutte le volte che papà usciva di casa e temevo che non tornasse. Nella mia mente di bambina le Brigate rosse sparavano a caso e tutti eravamo potenzialmente in pericolo. Più della morte mi faceva paura la gambizzazione. Mio padre nella mia testa era un pesce troppo piccolo per il sequestro o la «soluzione finale», e «gambizzare» aveva un suono così orribile. Ma mio padre era nessuno per chi escogitava piani criminosi: non un politico, non un giornalista, non un magistrato o un giudice scomodo. E noi si abitava in una città di provincia. Non avevo capito, a nove anni, che le Brigate rosse puntavano a bersagli sensibili, non a persone qualsiasi. Eppure ci sprofondavo dentro a quella minaccia di sangue sparso senza ragione.

Come dobbiamo comportarci?

Ora che invece noi tutti, persone qualsiasi, siamo bersagli sensibili, con quali mostri combattono i nostri figli? Diventeranno più coraggiosi o più spauriti? Riusciranno a non covare sentimenti di odio e di vendetta, a non negoziare la libertà con la paura? Si abitueranno a vivere dentro questa incertezza come se fosse una cosa normale, maturando anticorpi che noi non siamo capaci di somministrare? Sapranno proteggere e coltivare i valori con cui li abbiamo cresciuti: rispetto, tolleranza, accoglienza? Distinguere i buoni dai cattivi (tutti i cattivi, quelli che uccidono usando la religione come scusa e quelli che «usano» gli attentati per rispedire a casa i disperati in fuga), continuando ad abitare con semplicità e fierezza una società fatta di italiani, arabi, filippini, cinesi, senza fare di tutta l'erba un fascio, senza cedere ai richiami stupidi di chi aizza gli uni contro gli altri in nome di scriteriati principi di superiorità? Questo mi chiedo, mentre accarezzo mia figlia. Cercando di chetare con la tenerezza tutte le domande a cui non so rispondere.

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