Visto da fuori sembra un film.
Uno di quei film tratti da un romanzo di Philip K. Dick ambientato in un "futuro distopico", come direbbe, con formula consolidata, il bravo critico cinematografico. Invece è la realtà, la nostra, che ci vede tutti come automi telecomandati dal telefonino. Fermatevi per un attimo a un angolo di strada e osservate i passanti. Vi accorgerete di quanti si sfiorano senza guardarsi, o attraversano le strisce con sprezzo del pericolo, o guidano l'auto con sprezzo del pericolo altrui, mantenendo gli occhi incollati sul telefonino. C'è persino chi riesce a pagare alla cassa e fare bonifici bancari senza smettere di messaggiare, calcolando con maestria gli intervalli tra un'operazione e l'altra (emissione dello scontrino, stampa della ricevuta) per non passare da maleducato. Poi ci sono i ristoranti, quelli dove lui e lei non parlano, ma consultano Facebook e rispondono ai messaggi su WhatsApp come se... che noiachebarba; dove intere tavolate si fermano per postare le foto su Instagram; dove padri separati si gingillano coi figli su Internet non avendo niente da dirsi.
Non è passatempo, è dipendenza. Gli americani la chiamano "Fomo" – fear of missing out – cioè paura di perdersi qualcosa e di restare tagliati fuori. Ma tagliati fuori da cosa? Dall'ultimo edificante botta e risposta su un tramonto a Porto San Giorgio tra gli amici di Fb? Dall'imperdibile selfie di Gianluca Vacchi? Oppure dall'inopportuna mail del collega che il 10 agosto ci sottopone una questione che si può tranquillamente affrontare a settembre? La maggior parte delle informazioni che ci tiene fatalmente attratti ai device è spazzatura. Cose di cui si può vivere senza, fidatevi. Eppure non riusciamo a farne a meno. Stiamo male se non controlliamo in modo frequente e compulsivo il nostro smartphone. Arriviamo a credere che vibri anche quando tace (sindrome della vibrazione fantasma), a portarcelo ovunque, anche in bagno e a letto per sentirci rassicurati, ad avere ansie abbandoniche se nessuno ci tagga e crisi isteriche se all'improvviso scompare il wi-fi. La nomofobia (da no-mobile) è il grande paradosso del nostro tempo, reso più libero e insieme più schiavo dalla rivoluzione digitale.
Compito per le vacanze: prendete lo smartphone e incellofanatelo stretto stretto con pellicola resistente e antistrappo; riponetelo nell'angolo più remoto della valigia sotto le 800 e rotte pagine de Il cardellino di Donna Tartt che anche quest'anno non leggerete; uscite. I primi giorni di rehab saranno i peggiori: tachicardia, sudorazione, tremori, vertigini, mancanza di respiro, dolore toracico, nausea e attacchi di panico potranno manifestarsi nell'arco delle 48 ore. Resistete. Tirate su il collo (ahia!) e giratevi intorno. C'è una realtà là fuori. Cielo, strade, uccellini, nuvole, spiagge, ombrelloni, persone, albe, tramonti e glutei veri. Purtroppo non potrete modificare il colore e la forma di niente, sono così le cose in natura. Vi abituerete. Ricominciate a guardare vostro marito negli occhi, ad ascoltare i vostri figli mentre parlano senza compulsare su una tastiera e fare altro nel frattempo. Sgranchite i pollici e gli indici. Respirate. Quando comincerete ad assaporare l'ebbrezza della non reperibilità (cercatemi pure, io sono offline), vuol dire che ne siete fuori. Si chiama ritorno alla vita. Ed è bellissimo.
Maria Elena Viola, direttore di Gioia! Scrivetemi a: direttoregioia@hearst.it