C'è questo ragazzo migrante che vedo ogni mattina, ha la faccia nera di pece e un taglio sotto l'occhio, sigillato da una lunga cicatrice. Sta fermo sul bordo della strada e guarda basso, come un cane randagio abituato a prendere le botte. Dentro quegli occhi c'è come un amo, che se li guardi ci cadi giù, e fa paura perché il fondo è lontanissimo, cadi e basta. Sembrano due laghi immobili. Neri, docili. Così arresi alla violenza della vita, che speri ogni volta di non incrociarli, perché ti fanno domande a cui non vuoi rispondere, ti mettono a disagio.

La prima volta che l'ho incontrato era un sabato mattina davanti al bar. Il sabato è il momento delle brioche calde, del giornale, del cappuccino con la schiuma – non troppo caldo, grazie -, dell'oggi amore che si fa? Un angolo di assoluta pulizia e pace, al termine di una settimana di furia e trincea. Lui era lì fuori, dietro la vetrina. E noi, tutti noi, Milano l'Occidente il Primo Mondo, seduti placidi a fare colazione. Lui era lì e io non potevo fare come se non ci fosse. Cercare un tavolo in fondo, davanti alle paste, per toglierlo dall'orizzonte. Cancellarlo. Entrando, non aveva chiesto niente. Né soldi né attenzione. Ma era lì, fermo, la sua presenza gridava.

Insomma ho ordinato due brioche, gli ho chiesto con un gesto vuoi da bere? Il pollice e l'indice che si chiudono in un cerchio, e simulano l'atto di bere qualcosa. Come se fosse un amico rimasto fuori con il cane. Come se fosse tutto normale. Lo sforzo di non permettere a quel nocciolo molle in fondo al cuore di esplodere, chiuderlo dentro al pugno, non farlo respirare: sssh, va tutto ok. Poi lui entra, anche se non vuole, il limite della porta è un confine invalicabile. C'è un espresso per lui pronto sul bancone. Non osa, glielo porgo. E sta. Confuso tra la gente, timido. Un uomo venuto non so da quale mondo (Nigeria, scopro poi), come un marziano, che gli altri guardano come una cosa strana - anzi non guardano, perché fa più evoluto - un disperato nel bar dei fighetti, che beve il suo caffè. Lo fa velocemente, con lo sguardo basso. Ha occhi così tristi che sembrano coltelli. Poi esce, è un attimo.

E in quell'attimo il nocciolo molle in fondo al cuore si rompe e sporca tutto come l'inchiostro delle seppie. Comincio a piangere, e mi sento una scema, rannicchiata su un trespolo con le mani sul viso. Lacrime al posto delle zollette di zucchero, scendono incontrollabili sulle guance e nel caffè. Non si fermano, non fanno rumore, rotolano. Mi dicono che non è tutto normale. Nel bar è entrato un nero che s'imbarazza di stare in mezzo ai bianchi. Un invisibile, arrivato senza niente, nella città dove tutti hanno di più. Scagliato nel nostro sabato d'operosa pigrizia come una mina, una bomba H, uno sputo possente. 

Sui giornali è uno dei 90.000 migranti passati per Milano negli ultimi due anni. Uno dei 24.090 profughi arrivati dal mare dal primo gennaio a oggi. Magari il primo dei 500 che stanno "salendo su" dal Sud. Qui non è un dato, è una persona, che china la testa per dire grazie quando gli passo delle cose da mangiare, e accenna un sorriso se mi riconosce per strada. Un sorriso piccolo e incerto, che non riesce a spegnere la tristezza degli occhi. Figurarsi a scavalcare i muri. Dopo l'accordo tra Ue e Turchia l'Italia è diventata la prima meta delle migrazioni africane. Se continueranno i blocchi alle frontiere del Brennero, se malgrado la lezione della storia, l'Austria continuerà ad alzare barriere per rimbalzare questa vergogna, da Paese corridoio, diventeremo un Paese di sosta. Ma una vita che si ferma è una vita perduta.