Cara Victoria,

avere una vita non è mai stato così difficile.

Per il compleanno di Harper, tutti e tre i fratelli – persino Cruz, che non potrebbe avere un account Instagram perché non ha compiuto 13 anni, e infatti sotto hai provveduto a specificare che lo gestisce la società del manager di Justin Bieber, posso solo immaginare al termine di quali estenuanti contrattazioni – hanno postato una deliziosa foto con l'infanta per significarle i sensi del più devoto affetto. Mi figuro le raccomandazioni quella mattina a colazione: «Allora io vado: non giocate a pallone in salotto, fate almeno mezz'ora di compiti, e ricordatevi gli auguri a Harper prima di sera» – con lo stesso tono con cui mia madre mi diceva «telefona alla nonna, e sii gentile».

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È perché voi siete un brand, dirai tu. Come le patatine: coi nomi registrati e tutto il resto. E se quella cavernicola di Stella McCartney si infuria quando la sua bambina di buone letture finisce sugli iPad di tutto il mondo, in quanto invitata al tè di Harper a Buckingham Palace, è uno squisito problema suo: come poteva pensare che il glorioso evento rimanesse privato? O almeno: così mi ha risposto un'amica, quarantenne debuttante, quando le ho fatto notare che le foto della sua festa erano pubbliche e – nel mio piccolo mondo povero – praticamente dappertutto. (Non mi sono «infuriata», lo giuro, però avrei molto gradito i diritti di approvazione, o almeno un uso più democratico di Photoshop).

Forse anche lei è un po' brand, e io un po' cavernicola. L'ostinazione di voi celebri a condividere la normalità – saggi di fine anno, picnic fuori porta, pisolini col mascara – ha finito per illudere noi normali di vivere come celebrità: perennemente in scena. Nelle immancabili foto dal mare, innanzitutto: la dolce vita dei bagni Moby Dick. Nelle dichiarazioni d'amore il giorno dell'anniversario: per fortuna che Facebook si ricorda la data. Nelle figliolanze rappresentate con pignoleria: dalla linea sul test di gravidanza alla seconda (eccellentissima) laurea. Ma anche nella malattia, nel dolore, nel lutto.

Ora: io lo so che ognuno soffre come può. E che la vita somiglia a quello che succede su Facebook: uno che piange, uno che ride, uno che parla di cose che non sa. Ma come devo reagire alla notizia della morte della (presumo ultracentenaria) «adorata nonnina» di un collega di tre lavori fa? Una faccetta triste è un tributo adeguato? E per tragedie maggiori? Ci si aspetta un cuore? Un commento? Un telegramma? Non sono capace di reagire in pubblico a tanta desolata familiarità. Un social network serve quando sei felice, quando sei triste non ti serve a niente.