Era l'inizio degli Anni 90, i giornali americani la chiamavano bye-bye blues, addio tristezza: il Prozac era una capsula bianca e verde che esercitava un certo fascino su noi ragazzine che frequentavamo solo teppisti di buona famiglia, e l'eroina non era mai stata un rischio perché non avremmo saputo dove trovare uno spacciatore (e meno male: eravamo così ignare di tutto che come minimo ci avrebbero venduto qualcosa che ci ammazzava), e non avremmo mai preso in considerazione la cocaina (ritenuta volgarissima). Nel 1994 Elizabeth Wurtzel scrisse un memoir, Prozac nation, che celebrò la capsula bianca e verde come desiderio cool di quegli anni. Non solo fa dimagrire, leggevamo: cancella retroattivamente l'infanzia infelice; già allora credevamo a qualunque stronzata leggessimo (e non sapevamo che l'infanzia infelice devi tenertela stretta: c'è tutto il repertorio da romanzo che ti serve, lì dentro).

Adesso in America l'hanno ripubblicato, Prozac nation, ma è un reperto: come sintetizza il titolo di un articolo del New York Times, la nazione del Prozac è diventata gli Stati Uniti dello Xanax. Ci serviva una cosa che ci tirasse su, un secolo dopo ci serve una cosa che ci tiri giù. Dalla nostra mitomania, dalla determinazione a preoccuparci di tutto, e soprattutto da quest'epoca in cui tutto è malattia: c'è un nome psichiatrico per l'ansia che ti fa passare la voglia d'andare alle feste così come per il timore di perderti un programma televisivo o una tendenza su Twitter. Il premio Tony per il miglior musical di Broadway l'ha appena vinto la storia di un ragazzino che è troppo ansioso per fare amicizia: se Nanni Moretti fosse nato trent'anni più tardi, avrebbe ingoiato un tranquillante, altro che «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte».

Se controlliamo il telefono troppo spesso è ansia, mica noia, e persino Trump, giura il NYT, è diventato presidente per l'ansia di non essere abbastanza ricco, di successo, amato. C'è una scusa per tutto, in questo secolo qui.