Fossi cinica, a sentire Francesco Totti – quarant'anni suonati – che si lamenta perché «il tempo mi ha bussato sulle spalle e mi ha detto "domani sarai grande", lèvati gli scarpini perché da oggi sei un uomo» scuoterei la testa e sbufferei: era pure ora. Ma il sublime è il ridicolo quando diventa eterno: Totti frignava in mezzo al prato dell'Olimpico mentre camminava scavalcando Isabel – terzogenita col ciuccio, unica ignara – e leggeva la lettera che aveva scritto con Ilary per trovare il modo di salutare, di riverire e di ringraziare Roma, la Roma, la curva, la storia. La storia, la curva, Roma e la Roma frignavano più forte: non esiste un modo indolore di sentirsi più vecchi. E allora lui l'ha detto, ché mica diventi Totti se non sei sincero ai limiti dell'indecenza (al massimo: diventi Beckham): «Spegnere la luce non è facile, adesso ho paura». Pure noi, France'. E chi se ne frega se non è elegante, se Grazie Roma di Venditti è troppo facile, se «io di calcio proprio non mi occupo, vuoi mettere il badminton»: è stato tanto bello, ho pianto tanto.

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