Se devi spiegare la battuta sono guai, sia per te sia per la battuta, disse una volta Mike Nichols a Meryl Streep. Se devi spiegare l'io narrante, pure. Eppure, nell'epoca in cui c'è la gara a chi si offende prima, le battute vanno spiegate quasi sempre, quasi tutte. Carlo Conti ha trascorso Sanremo a dire «Scherzavo» dopo ogni battuta scontata, innocua, che non avrebbe turbato neanche la principessa del regno della Permalosità. Erano battute alla portata della comprensione anche di un treenne, ma non si è mai al sicuro dalla suscettibilità a casaccio, e quindi lui si portava avanti: scherzavo.

L'io narrante, poi, è una causa persa. Solo un pazzo scriverebbe i veri fatti propri in un luogo pubblico; eppure chiunque scriva, filmi, rappresenti cose in prima persona è costretto a specificare in continuazione «Non sono proprio io, è una versione drammatizzata di me, io sono solo uno spunto per dire "io"» (variante prolissa di «Scherzavo»). Carrie Fisher sbuffava quando liquidavano come mera trascrizione delle sue vicende familiari Cartoline dall'inferno: «È più facile credere che non abbia capacità d'inventarmi un linguaggio e dei dialoghi, e che possieda solo un registratore le cui pile non finiscono mai». Nora Ephron sosteneva fosse un limite imposto alle sole femmine: se lei scriveva un libro sul suo divorzio la consideravano priva d'immaginazione e capace di raccontare solo i fatti propri, ma «Philip Roth parla solo delle sue fidanzate e nessuno dice niente».

Non so se sia vero, ma di sicuro a percepire l'enorme differenza tra raccontare i fatti propri e rielaborarli in modo che siano interessanti (o commoventi, o divertenti, o insomma arte) facciamo più fatica anche noi femmine, se a narrare è una femmina. Se Philip Roth parla della sua prostata, è un grande artista che affronta uno dei temi più importanti: la decadenza del corpo. Se Louis CK monologa di quant'è ingrassato, sfasciato e con due bambine piccole che gli impediscono di stare in pace anche in bagno, è un adorabile seduttore che sa quanto ci piacciano le debolezze dei maschi (e non è neanche il primo: già Guccini ci conquistò confessando che «nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento»).

Se invece sei Lena Dunham, devi passare i sei anni di Girls a ribadirci che Hannah Horvath non sei tu. Nonostante il concetto si dimostri da solo: Hannah Horvath avrà pure la tua autostima, il tuo esibizionismo, il tuo brutto carattere, ma è troppo priva di talento e di tenuta sulla lunga durata per diventare ideatrice e regista e protagonista di una serie a 25 anni, e farla un caso culturale e sociale. È una di noi, Hannah: non so voi, ma io tra i 25 e i 30 anni non avevo la costanza di tenere un diario per più di una settimana, figuriamoci essere responsabile di un telefilm, venire identificata da tutti con la protagonista, farmi insultare sui social, e sopportare anche che un'opera di fantasia venga scambiata per un manuale d'istruzioni.

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Lena Dunham.

Adesso che Girls sta finendo (in America è iniziata la sesta e ultima stagione), Lena ride: le hanno chiesto se non si vergognava a suggerire di aprire le gambe e farla vedere al capufficio, ma come hanno potuto pensare che fosse un consiglio e non «guardate cosa combina questa svitata che interpreto»? Avrebbe dovuto mettere una scritta alla fine d'ogni puntata: scherzavo.