Il cuore del referendum del 4 dicembre non è l'abolizione o meno del bicameralismo perfetto e neppure la riduzione del numero dei senatori o la riforma delle autonomie regionali. L'anima autentica di questa consultazione è il voto su Renzi e i suoi mille giorni di governo. Quel voto che il premier non ha ancora avuto, essendo arrivato a palazzo Chigi senza passare dalle elezioni politiche.

Nelle ultime settimane il fronte del sì ha provato a spersonalizzare la battaglia, sganciando l'esito del referendum dal futuro politico del Primo ministro. A mio parere, inutilmente. Il fiorentino era andato già troppo avanti, annunciando chiaramente e più volte le proprie dimissioni in caso di sconfitta e trasformando di conseguenza il voto in un plebiscito sul Governo. Del resto, come testimoniano molti sondaggi, gli italiani non conoscono nel dettaglio la riforma che sono chiamati a votare, né le attribuiscono particolari effetti taumaturgici. In effetti, la modifica del Parlamento sembra rispondere a esigenze di alcuni decenni fa, quando era ancora il cuore del sistema.

Oggi decidono per lo più gli esecutivi: a Strasburgo, l'elettività dell'assemblea non ha giovato all'Unione Europea e alla sua capacità decisionale. Quanto all'Italia, da tempo sugli scranni di Camera e Senato siedono onorevoli nominati dai partiti secondo criteri di fedeltà più che di competenza e autonomia. Insomma, il parlamentarismo è al tramonto da un pezzo. E questo referendum, pur affrontandone apparentemente i nodi, nella realtà mette al centro un giovane premier, i suoi successi, i suoi errori. Ecco perché la sua leadership non potrà non essere toccata profondamente dall'esito del voto. Perfino al di là di meriti e demeriti. È un voto velenoso, comunque la si pensi. Un voto che spacca l'Italia in due e accumula frustrazioni più che promesse. Un voto la cui potenziale carica distruttiva poteva e doveva essere evitata.