Nel film di Valeria Bruni Tedeschi che uscirà a Natale, I villeggianti, la nipote chiede alla nonna come mai abbia le dita storte. Lei dice che è l’artrosi; la bambina le domanda se, quando piange, pianga per le dita da pianista rovinate o per il figlio morto; lei risponde: tutt’e due. Quando mio zio morì, quarantenne, in un incidente stradale, le cognate bisbigliavano: come dirlo alla nonna? È anziana, il figlio preferito, come minimo morirà di crepacuore. Poi qualcuno si decise: sai, dobbiamo dirti una cosa, Cesare è morto. E lei: eh, ma anch’io ho un giradito che mi fa un male. Per molti anni ho pensato fosse saggezza dell’età: a un certo punto capisci che l’unica persona importante della tua vita sei tu. Ho una vicina di casa elegantissima. Sono più di dieci anni che la incontro con messinpiega impeccabile, mentre io sembro uscita da un casting di sfollati. Per nove anni, a ogni «Come sta?», mi ha dettagliato per dieci minuti qualunque acciacco, malanno, reumatismo da pioggia, pressione bassa da caldo.

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Sembrava ignorare che «Come sta?» non è una vera domanda: è una formalità, non un pretesto per farmi l’elenco delle tue disgrazie. Quando mi sono resa conto che non era in grado di rispondere «Bene, grazie» come la gente civile, ho pensato di evitarla, di rallentare il passo in cortile per non prendere l’ascensore insieme e ascoltare la lista dei sintomi – ma mi sentivo scema. Poi ho trovato la soluzione: bastava, a «Buongiorno», non far seguire «Come sta?». Nel silenzio privo di anamnesi che ne è seguito, ho avuto modo di riflettere, e mi sono resa conto d’un dettaglio: in nove anni di risposte dettagliate a «Come sta?», la vicina non aveva mai fatto seguire uno straccio di «E lei?». Certo, sarà l’età. Ma secondo me è anche un po’ carattere. Quello che ci accomuna: io che mi scoccio se mi dici come stai, tu che neanche me lo chiedi; tu che mi elenchi i tuoi calli, io che mi sento privata del mio diritto alla lagna perché non m’hai dato modo di dirti del mio giradito.