Di quanti punti esclamativi abbiamo bisogno per sembrare entusiasti davvero? Se lo chiede Julie Beck in un bell’articolo (intitolato giustamente Read this article!!!) pubblicato di recente sulla rivista americana The Atlantic. Mi conforta che qualcuno finalmente ne parli. Perché è da tempo in effetti che mi pongo lo stesso quesito. Esattamente da quando mi sono ritrovata a spargere punteggiatura a grosse manciate su tutti i miei messaggi di WhatsApp, per poter tenere testa alla soverchiante baldanza “paragrafematica” dei miei interlocutori digitali.

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Ciao non è mai ciao, ma Ciao! Ci vediamo presto, di punti esclamativi deve averne almeno due per significare reale desiderio di incontrarsi. Zero rasenta la maleducazione (ci vediamo presto – punto – lo dici a tua sorella: per intenderci). Da quand’è che abbiamo iniziato a usare i segni d’interpunzione in modo tanto esagerato? Non solo il punto esclamativo, ma tutti. Il punto e virgola credo di averlo usato per la prima volta intorno ai 28 anni, essendone sempre stata intimorita. La verità è che non sapevo mai dove metterlo: o punto o virgola, nelle proposizioni tendo ad essere decisionista. Ho recuperato nell’ultimo anno distribuendo occhiolini a fine mail. Dei due punti ho fatto a meno per tutta l’adolescenza, non avendo evidentemente bisogno di spiegare niente. Ora mi tornano utili in molte occasioni, soprattutto in mancanza di tastiera con emoji. Quanto al punto esclamativo, accipicchia, l’ho sempre trovato così terribilmente wow, da usarlo con parsimonia come lo zafferano. E sì che sono una persona che si esalta facilmente.

Però ai miei tempi si usava affidare alla faccia tutto il variegato campionario di umane meraviglie. La comunicazione verbale era espressiva, quella scritta per lo più comunicativa. Ma non per questo asettica e anaffettiva. I grandi scrittori, poeti, narratori, persino noi nelle nostre lettere d’amore, siamo riusciti a trasmettere ogni possibile sfumatura emotiva – la gioia, la rabbia, lo stupore, la passione – con la sola forza delle parole, restando asciutti di punteggiatura. M’illumino d’immenso (!!!!!!!!!!). Poi è successo che sono arrivati i social, e tutti abbiamo iniziato a messaggiare. Se l’sms ancora serviva a scambiarsi informazioni basilari (dove sei? Hai preso il pane?), WhatsApp è diventato ufficialmente il nostro portavoce per ogni tipo di comunicazione. E abbiamo scoperto che era così facile dirsi le cose, liquidare le questioni, affrontare temi anche spinosi con due battute sul telefonino, che abbiamo iniziato a fare tutto a mezzo digitale: prendersi, lasciarsi, tradirsi, confessarsi, litigare e riappacificarsi, conquistare nuovi amici, fare le condoglianze, dirsi all’ultimo minuto che scusa-scusa ma proprio non riesco più a venire (cuoricino), e scambiarsi gli auguri e le congratulazioni, pure quelle degli anniversari importanti che un tempo erano il pretesto per risentirsi dopo anni di silenzio.

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È così che poco a poco abbiamo smesso di parlare. E di affidare ai punti esclamativi i nostri occhi sgranati e le nostre bocche spalancate. Le farfalle nello stomaco e i tonfi al cuore. Baci!!!! Da quando i baci hanno bisogno del punto esclamativo? Immagino da quando non li diamo più. Un giorno mia figlia mi ha detto: facciamo pace? Certo, le ho risposto, se vieni qui ne parliamo. No: scrivimi. Eravamo nella stessa casa. Lei nella cameretta, io in soggiorno. Ogni volta che c’è qualcosa che non va non me lo dice, me lo scrive. E anche io mi accorgo che sto prendendo la brutta abitudine di risolvere le questioni importanti o dire le cose difficili in massimo 200 caratteri. Si risparmia tempo e si evitano un sacco di seccature... Non ne vado fiera, anzi penso che sia una scappatoia pericolosissima. Per le nostre relazioni, che finiranno per seccarsi come piantine lasciate senz’acqua. E per la nostra punteggiatura, che per voler dire troppo, finirà un giorno per non dire più niente. E a noi ci toccherà pure cambiare nome alla testata.

Scrivete a Maria Elena Viola, direttore di Gioia!: direttoregioia@hearst.it